Diritti
Il fallimento del multiculturalismo
I tragici fatti di Londra riportano alla mente una tematica che, soprattutto a partire dal tragico 11 settembre 2001, infiamma il dibattito sia a livello politico che culturale. Il tema caldo è quello del multiculturalismo che la sinistra europea ha appassionatamente abbracciato immaginando potesse essere la formula corretta e efficace per affrontare i problemi nati a seguito dei grandi processi migratori in atto. Favorire politiche multiculturali, a giudizio di quanti se ne fanno sostenitori, è l’antidoto giusto a quel mai riconosciuto “scontro di civiltà” impropriamente assegnato come riferimento forte della destra più regressiva.
Ma proprio le cronache drammatiche di questi anni, ma anche il disagio sociale che si manifesta all’interno delle società europee, ha fatto emergere quanto sia stata sbagliata la previsione e come sia necessaria, e urgente, un ripensamento delle visioni multiculturalistiche, almeno così come sono state immaginate, perfino, attuate in paesi di grandi tradizioni democratiche come appunto il Regno Unito ma, anche se in forme camuffate, nella stessa laica Francia e in Germania. Il multiculturalismo non è, come infatti immaginano molti, solo il giusto e doveroso rispetto delle culture, e quindi il rispetto delle diversità, in alcuni casi molto profonde – ma un approccio politico e culturale, che dovrebbe tradursi in atti legislativi. Si tratta, come appare evidente, del sovvertimento dei principi fondamentali sui quali si fonda lo Stato democratico, cioè di quel principio di eguaglianza ereditato dalla rivoluzione illuminista.
Piuttosto, dunque, che uno Stato che tratti i cittadini allo stesso modo – prescindendo dalle differenze di razza o di religione – uno Stato in cui le persone dovrebbero essere trattate in maniera diversa proprio perché esistono delle differenze. Corollario di ciò sarebbe, pertanto, l’abbandono dell’idea dei diritti universali è l’assunzione al loro posto dell’idea dei diritti differenziati. E’ evidente che una simile prospettiva comporta delle conseguenze significative a partire dalla negazione che le identità culturali possano mutare. Una vera e propria bizzarria intellettuale dal momento che le identità culturali sono complessi di pensieri e comportamenti soggetti a continue evoluzioni proprio in ragione del confronto con la realtà vissuta e con i soggetti con cui entrano in relazione.
Ci ricorda a questo proposito Kenan Malik nel suo saggio “Il Multiculturalismo e i suoi critici”, che quando ci si sforza di proteggere e promuovere le tradizioni delle diverse culture etniche, nei fatti si ostacola la tendenza delle persone a mettere in discussione gli usi del loro ambiente di origine e quindi di fatto se ne impedisce quella che è la naturale evoluzione, cioè il diritto sacrosanto ad evolversi. Sul piano pratico, visti i risultati registrati nei paesi in cui è stato applicato, in maniera palese o in maniera subdolamente occulta, bisogna avere l’onestà intellettuale di affermare che il multiculturalismo non solo non ha risposto alle esigenze delle persone e delle comunità che intendeva proteggere ma le costrette a chiudersi in contenitori etnici in pasto ai soggetti più conservatori e integralisti che ne sono divenuti i rappresentanti accreditati.
Per avere chiaro il significato di quanto scrivo ricordo come, negli anni ottanta, alcuni cittadini britannici di origine pakistana avevano costituito una sorta di parlamento musulmano con l’intenzione di legiferare, applicando la Sharia, su tutti i seguaci della religione islamica. Da questo pare ovvio ricavarsi che il multiculturalismo è sostanzialmente fallito per la banalissima ed evidente constatazione, lo ricorda in un suo commento Antonio Carioti, che si tratta di un approccio poco rispettoso dei diritti individuali a cominciare da quello della libertà di espressione. Proprio su questo tema ci sarebbe molto da scrivere, la censura del linguaggio laddove si affronta il tema della diversità è un sintomo della regressione, della rinuncia in nome di una molto fumosa idea di convivenza alla possibilità di critica.
Vietare la critica anche alle credenze fondamentali dell’altro o usare un linguaggio ipocritamente mistificatorio, diciamolo fuori dai denti è come recitare il de profundis della cosiddetta società aperta. Sembra, dunque, che sia trascorsi anno luce da quando, sui muri di una Parigi eccitata dalle parole forti di un’utopistica rivoluzione culturale, si poteva leggere “il est interdit d’interdire” che in italiano è stata tradotta nel problematico “vietato vietare”.
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