Diritti

Il diritto umano di dominare

26 Novembre 2016

Che cosa sono, oggi, i diritti umani? Uno strumento di giustizia, garanzia del diritto e moderazione della violenza elaborato dalle democrazie liberali per tutelare i soggetti piú vulnerabili? In realtà, se guardiamo alla fisionomia di chi se ne occupa, accanto a istituzioni internazionali, corti di giustizia e ONG, troviamo anche agenzie di sicurezza nazionale, organismi militari e organizzazioni portatrici di interessi specifici e omogenei alle strutture di potere. Attraverso l’analisi di casi concreti che vanno dalla tutela dei diritti dei coloni israeliani alla guerra legalizzata con i droni, dagli omicidi mirati agli scudi umani, gli autori mostrano come le categorie di abuso, colpevole e vittima si scambino continuamente di posto, a seconda degli obiettivi di chi si appropria del discorso dei diritti umani: che possono essere anche una preziosa risorsa di legittimazione per rafforzare la dominazione, sancire gli squilibri consolidati e giustificare guerre e occupazioni – non uno strumento universale e neutrale di emancipazione. Nel saggio Il diritto umano di dominare (edizioni nottetempo), scritto da Nicola Perugini, antropologo che insegna Relazioni Internazionali all’Università di Edimburgo, e Neve Gordon, professore di Scienze Politiche all’Università Ben Gurion del Negev, in Israele, emergono senza appello tutte le contraddizioni dell’ordine “morale” globale, insieme all’invito a ripensare l’odierno impoverimento dei diritti umani, rivitalizzandone la funzione antiegemonica, la reale rappresentatività e la forza di resistenza.

Riceviamo e pubblichiamo un estratto del testo, ringraziando gli autori.

Noi sosteniamo che i “diritti umani” siano un concetto conflittuale e sovradeterminato. Una volta invocati, hanno sempre il potenziale di assumere nuovi significati politici, i quali a loro volta possono rispecchiare o invertire quelli già esistenti. È questa una delle “incertezze dei diritti umani”, che Hannah Arendt discute in Le origini del totalitarismo. I diritti umani hanno aspirazioni universali ma, una volta analizzati, si rivelano essere storicamente determinati nelle loro specifiche articolazioni, codificazioni e applicazioni. Circoscritto nel tempo e nello spazio e, non ultimo, nello specifico linguaggio in cui i suoi stessi concetti vengono formulati, il discorso dei diritti umani parla dell’universale in una modalità che è sempre meno che universale e altra rispetto all’universale. È per questa ragione che riteniamo che i diritti umani siano adottati da una vasta gamma di attori politici che li traducono, spesso in maniera contrastante, in idiomi locali.

Al tempo stesso, ogni impiego dei diritti umani è una traduzione che rivendica la propria autenticità in un modo che corrisponde alla costruzione di una specifica interpretazione della storia. Rivendicare l’autenticità è un’azione che mira a fornire validità e autorità all’enunciazione dei diritti umani, poiché l’originale è ritenuto avulso da rapporti di potere e scontri specifici; esso è universale, neutrale, non politico. In effetti, è proprio la sua sembianza di versione autentica che conferisce potere a una rivendicazione dei diritti umani. Abbandonare l’illusione dell’autentico può essere molto difficile e può essere percepito come un tradimento, ma noi pensiamo che sforzarsi di non rivendicare la conformità a un originale possa essere un contributo a una piú chiara comprensione di ciò che le persone fanno con i diritti umani. Inoltre, come sosterremo nel capitolo conclusivo, ciò può aprire la porta a un diverso tipo di diritti umani, anche dopo il loro radicamento all’interno di forme di dominazione. In maniera piú specifica, le dichiarazioni e le convenzioni sui diritti umani si pongono come un originale non politicizzato, e ciò nonostante il fatto che esse stesse siano delle traduzioni e appropriazioni di enunciati antecedenti.

È cruciale però notare che le traduzioni da queste convenzioni “originali” avvengono in relazione a una varietà di forze politiche che le invocano e le mobilitano indipendentemente dai propri orientamenti ideologici o dalle differenze di potere tra di loro. Queste rivendicazioni presentano tre dimensioni. In primo luogo, l’adozione dei diritti umani come linguaggio di lotta e di interpretazione degli eventi è in se stessa una scelta politica: i diritti umani vengono mobilitati al posto, e qualche volta alle spese, di altri discorsi politici sulla giustizia. La decisione di adottare il discorso dei diritti umani come linguaggio politico è dunque già una decisione politica. In secondo luogo, quando vengono adottati in un contesto concreto, i diritti umani ne sono al tempo stesso plasmati. In terzo luogo, proprio perché i diritti umani si presentano come universali, la loro appropriazione e la loro articolazione in base al contesto locale hanno effetti positivi sia per i progetti egemonici che per quelli controegemonici, i quali spesso ricontestualizzano come universali gli interessi di gruppo in modo da acquisire una legittimità globale.

La combinazione di queste tre dimensioni produce quello che noi definiamo la politica dei diritti umani. I rapporti politici contribuiscono a plasmare il significato dei diritti umani e a loro volta vengono plasmati da questo stesso significato e dalle due parole che lo compongono: l’umano e i diritti. Ogni traduzione dei diritti umani è permeata da questo duplice processo, nel quale la tensione tra le forze politiche esistenti che chiamano in causa i diritti umani e un supposto universale produce significati e scenari politici potenzialmente infiniti. Il significato dell’umano e la distribuzione sociale dei vari gradi di umanità cambiano da un contesto storico e geografico all’altro.

Nei regimi coloniali, per esempio, gli indigeni erano spesso considerati dei subumani, mentre nella Germania nazista furono gli ebrei a diventare subumani, come avvenne in Bosnia per i musulmani. Lo stesso si può dire del termine “diritto”. In un contesto storico il diritto alla proprietà era interpretato come diritto al lavoro, in un altro come diritto al possesso. Anche l’educazione, un tempo mero privilegio di cui pochi potevano godere, è oggi considerato un diritto umano fondamentale in gran parte dei paesi del mondo. Un esempio relativamente recente della lotta intorno al significato dei diritti umani ha a che fare col tentativo di introdurre la nuova categoria di “combattente illegittimo” nel Diritto Internazionale Umanitario (DIU).

Per piú di un secolo, il DIU si è fondato sulla distinzione tra due categorie di umani – combattenti e non combattenti – e ha elaborato regole di condotta morale specifiche per ognuna di queste due categorie. Coloro che sono a favore dell’introduzione della categoria di “combattente illegittimo” sostengono che si tratta di un fenomeno nuovo che non è contemplato dal DIU, per cui è di vitale importanza introdurre una nuova categoria e stabilire nuove regole di comportamento nei suoi confronti. Chi si oppone sostiene che si vuole introdurre questa categoria per legittimare forme immorali di condotta nei confronti del nemico, come la tortura e la detenzione senza giusto processo.

Al tempo stesso, il fatto che i diritti umani siano dei significanti instabili non vuol dire che essi si collochino al di fuori della sfera normativa. Al contrario, è proprio questa instabilità che permette una continua ridefinizione, risignificazione e trasformazione dell’ambito normativo. Dopotutto, i diritti umani producono concezioni di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato e in questo modo forniscono una cornice normativa alla storia. La loro mobilitazione politica avviene per “impadronirsi delle regole della storia” e per definirne i contenuti accettabili.

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