Diritti
Il Coronavirus e la morte di George Floyd: una nuova coscienza collettiva?
Quanto è potente l’immagine del poliziotto inginocchiato sopra il collo di George Floyd? Un momento che difficilmente riusciremo a dimenticare di questo 2020. Quel “Non riesco a respirare” rimarrà come il simbolo dell’inizio di una protesta che è nata a fine maggio ed oggi, a metà giugno, non è ancora cessata, ma si è espansa, dagli Stati Uniti a tutto il mondo, mettendo in evidenza il problema del razzismo. Ok, George Floyd non è il primo uomo nero ad essere ucciso dalla brutalità della polizia. Prima di lui ce ne sono stati molti altri, e altrettanti attivisti per i diritti civili si sono impegnati per il cambiamento prima di oggi, tuttavia quello che possiamo notare di diverso è la vastità della risposta.
Le proteste contro l’ingiustizia commessa verso Floyd sono andate ben oltre tutto ciò che avevamo visto prima. Non si è trattato solamente di un hashtag su Twitter o qualche sparuta forma di protesta estremamente localizzata, no, dal 26 maggio le proteste continuano ancora ed hanno finito per ampliare il proprio significato cercando di estendersi a tutti quei simboli che hanno contraddistinto il “sistema razzista” bianco finora perpetrato. Alcuni hanno parlato persino di iconoclastìa, ma è un termine che al momento possiamo mettere da parte.
Già, perché dopo la pandemia è molto cambiato il modo in cui utilizziamo i social media. La somma di notizie negative che ci sono giunte in pochissimi mesi (come il bollettino quotidiano delle vittime alle ore 18), il numero crescente dei morti e soprattutto l’interruzione dei movimenti di base della nostra vita quotidiana hanno segnato indiscutibilmente il passo. il continuo scorrere tra notizie negative ha avuto anche un nome: doomscrolling, che indica propriamente il consumo compulsivo di aggiornamenti negativi. Il Coronavirus è stato raccontato dai media in ogni minimo dettaglio, dai medici senza dispositivi di protezione a pazienti curati nelle corsie degli ospedali che muoiono senza nemmeno poter rivedere la famiglia. Il Covid-19 ha generato in noi una paura dell’ignoto ed ha aumentato per molti, un concetto psicologico chiamato “teoria della gestione del terrore“. In breve, questa teoria afferma che l’uomo è dotato di molti meccanismi di difesa come una giusta visione del mondo, il nazionalismo, le credenze religiose, che aiutano ad alleviare la nostra paura e ci proteggono dall’ansia quando ci sentiamo minacciati dalla morte. Quando questi meccanismi di difesa non sono più sufficienti, e ci sentiamo esposti e minacciati, proviamo a connetterci ad un’entità sociale più ampia, ad un collettivo, oppure a perseguire qualcosa di significativo.
La morte di George Floyd, aggregata al cosiddetto “razzismo sistemico” e la brutalità della polizia nei confronti dei “neri” ha creato un nuovo collettivo, che fornisce a chi ne fa parte un significato ed uno scopo. Chi è sceso in piazza ed ha manifestato a favore dei diritti sociali ha dimenticato la paura della morte e l’isolamento nel doomscrolling. L’idea di sentirsi nuovamente uniti, e con uno scopo preciso, è stata rilevante nel successo delle manifestazioni anti-razziste e continua a mobilitare ancora più persone che all’inizio erano ancora titubanti. Ricerche psicologiche nel campo della gestione del terrore hanno introdotto il termine della “salienza della mortalità“: la necessità di avere un senso di chiarezza nei confronti delle visioni del mondo, dei valori e dello scopo nella società, una condizione che in molti hanno raggiunto unendosi alle proteste. Sentirsi uniti dalla stessa idea ha fatto sì, in USA, che i manifestanti abbiano ben accolto l’ex candidato presidenziale Mitt Romney, repubblicano sconfitto da Barack Obama nel 2012, nella marcia verso la Casa Bianca, per il cambiamento e la giustizia sociale. Nessuno lo avrebbe mai detto.
Le proteste, abbiamo visto, si sono poi estese in brevissimo tempo a tutto il mondo, offrendo a molte persone di sentirsi parte di un movimento e una comunità importanti. Il doomscrolling però non si è fermato, con la flessione delle pessime notizie riguardo al Covid-19 nei paesi occidentali, i social media sono stati riempiti di immagini violente – come quelle della morte di George Floyd – che hanno finito per rendere ancora più sensibili le persone alla brutalità della polizia e all’ingiustizia. E sebbene dalla Cina arrivino notizie di una seconda possibile seconda ondata di Coronavirus, i manifestanti si sentono comunque parte di proteste che valgono la pena di essere nuovamente riproposte.
Ok, fine del ragionamento, diciamo che il Coronavirus ha spinto moltissima gente a non permettere che la propria vita venga definita da una pandemia, in cui le uniche regole sono distanziamento sociale e lavaggio delle mani o mascherine; Covid-19 ha insegnato che l’uomo è in grado di raccogliere le proprie forze per una causa comune contro il razzismo, l’ingiustizia e la brutalità della polizia, sia con la protesta che con altri mezzi. Possiamo dirlo, dalla paura molte persone hanno trovato un significato.
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