Asia

I Rohingya, il silenzio di Aung San Suu Kyi e il potere dei militari

15 Settembre 2017

I Rohingya, stando alla definizione delle Nazioni Unite, sono una delle minoranze più perseguitate al mondo. Di questo popolo invisibile, di fede musulmana, che dall’VIII Secolo vive nel nord-ovest della Birmania, si è tornato a parlare in questi giorni a causa dell’aumento delle violenze nel Paese.

COSTRETTI A SCAPPARE
Dal 25 agosto a oggi, per scappare dalle persecuzioni dei militari e degli estremisti buddisti, sono fuggiti in quasi 400mila nel vicino Bangladesh. Secondo l’Unicef, l’80 per cento dei rifugiati sono minori e donne, molte delle quali in gravidanza. I bambini, spiega Jean Lieby, responsabile per i programmi di protezione dell’infanzia dell’associazione a Dacca, «sono quelli più colpiti e hanno bisogno di supporto per sopravvivere e per superare i traumi mentali e fisici provocati dagli spostamenti forzati della popolazione». Intanto, le poche testimonianze di prima mano che ci arrivano – poiché per i giornalisti stranieri e per le organizzazioni umanitarie è ancora molto difficile entrare nel Paese guidato da Aung San Suu Kyi – parlano di brutalità inaudite e quotidiane: centinaia di morti, stupri, mine, sparizioni, villaggi dati alle fiamme e torture.

UN POPOLO SENZA DIRITTI
In Birmania i Rohingya non hanno libertà di movimento. Vivono in campi sovraffollati, senza il diritto di avere cure mediche e istruzione. E ancora, non possono possedere nulla e non possono avere più di due figli. E pensare che la situazione nel Paese sarebbe dovuta cambiare con quelle che sono state chiamate «le prime elezioni democratiche» svolte nel novembre 2015 e che hanno portato al governo il National League for Democracy (NLD). Il partito guidato da Aung San Suu Kyi, «la Signora della democrazia», la stessa che nel 1988 è rientrata in Patria proprio trasformare la Birmania e che nel 1991 ha vinto il premio Nobel per la Pace. Quella che per combattere i generali al potere è stata costretta agli arresti domiciliari fino al 2010. E che ora, invece, sembra rimanere in silenzio davanti alle ingiustizie e alle violenze dei suoi vecchi nemici.

SILENZI E ACCUSE
Per questo silenzio e per la decisione di non partecipare all’Assemblea Generale dell’Onu che si terrà la prossima settimana, nella quale è prevista la discussione di quello che sta succedendo nel Paese, Aung San Suu Kyi ha ricevuto critiche e polemiche. Secondo Zeid Ràad al-Hussein – l’Alto Commissario Onu per i diritti umani – in Birmania è in atto un «chiaro esempio di pulizia etnica» e, per questo, si è appellato al governo chiedendo di porre immediatamente fine alle «crudeli operazioni militari». Il Premio Nobel, per difendersi dalle accuse, ha criticato i media, «colpevoli di fare disinformazione» e ha etichettato come «terrorista» la minoranza musulmana, riferendosi agli attacchi armati dei giorni scorsi dell’Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA). Per gli esperti del settore, però, questo gruppo non avrebbe nulla a che fare con le organizzazioni islamiste che operano in Siria, Iraq o in altre parti del sud-est asiatico.

I MILITARI SEMPRE AL POTERE
Ma andando oltre alle affermazioni molto discutibili fatte alla stampa da Aung San Suu Kyi, il problema è che la Birmania è ancora sotto scacco dei vecchi generali che hanno insanguinato per decenni il Paese. La Carta Costituzionale, infatti, non solo riserva ai militari il 25 per cento dei seggi parlamentari indipendentemente dall’esito delle votazioni, ma permette anche loro di controllare il Ministero degli Interni, della Difesa e per gli Affari di Confine. Inoltre, la vecchia giunta è parte del Consiglio per la Difesa e la Sicurezza Nazionale, che può in qualsiasi momento bloccare o modificare le leggi considerate pericolose per l’unità e la sicurezza della Nazione. Ma non solo: Le Forze armate potrebbero anche assumere il potere avvalendosi della norma costituzionale che consente al capo di Stato maggiore di dichiarare lo stato di emergenza e sciogliere il Parlamento in caso di crisi. Tutte cose che «la Signora della democrazia» sapeva molto bene. Anche quando, dopo le elezioni del 2015, insieme a centinaia di migliaia di persone, festeggiava la «vittoria» nelle strade del Paese.

@fabio_polese

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