America

I bianchi moderati sono ancora più «devoti all’ordine che alla giustizia»

16 Giugno 2020

Roberto Saviano, in una sua recente cronaca da New York sulle rivolte seguite all’omicidio di George Floyd, ha scritto che alla maggior parte di coloro che entrano nei negozi a rubare «non frega nulla dell’innocente nero ammazzato sotto il ginocchio di un poliziotto, non importa nulla della situazione dei ghetti, vuole solo fregarsi il televisore». E forse è così. Ma il resto? Il resto in quelle righe quasi scompare, a partire dalle ragioni profonde della rabbia eruttata dalle strade americane sin nel giardino della Casa Bianca, ridotto a fortino.

Come nell’articolo di Saviano, lo stesso è accaduto anche altrove nel dibattito politico e giornalistico italiano di questi giorni. Anzi, si può dire che è accaduto un po’ ovunque, spesso in nome di una idea molto formale di legalità, debitrice più del decoro che della giustizia e che, anche al di là delle intenzioni, ha finito per ridurre a sfondo persino il razzismo e l’ordinarietà della violenza poliziesca.

Per carità, non è che, dopo l’assurda morte di George Floyd, di razzismo non si sia scritto e discusso. Lo si è fatto, naturalmente. E lo si è fatto con i toni della condanna e della dovuta partecipazione alla sofferenza delle vittime delle discriminazioni. E però il primo pensiero di molti, soprattutto nelle due settimane trascorse tra la morte di Floyd e le grandi manifestazioni del 6 giugno, pare esser corso soprattutto ad altro.

Ci si è interrogati su come le proteste più estremiste potrebbero favorire la corsa di Donald Trump per la rielezione alla Casa Bianca. Si è ragionato su possibili infiltrazioni di gruppi di suprematisti bianchi tra i manifestanti, sul rischio di strumentalizzazione delle proteste da parte di frange radicali di vario orientamento, e persino su eventuali interferenze russe. Soprattutto, ci si è molto preoccupati per i saccheggi che hanno avuto luogo in alcune città americane. E, come detto, per lo più lo si è fatto in nome di una idea di legalità così formale che qualcuno è parso quasi faticare nel discernere tra la vita di un uomo e l’integrità della vetrina di un negozio.

Per sovrappiù, ciò è accaduto mentre tutto attorno stava montando – e basta vedere lo stato del dibattito sui social – una gran voglia di spiegare a chi è vittima di una discriminazione come comportarsi per affermare il proprio diritto. Il che, peraltro, è un grande classico. Quanto invece alle ragioni che hanno provocato rivolte e proteste, ebbene poco o nulla.

È mancato insomma il racconto dell’America e dell’origine profonda della rabbia che in questi giorni è esplosa nuovamente. Quel racconto per lo più lo si è dato per scontato e si è creduto di poterlo esaurire nel ricordo sommario degli ultimi casi di razzismo e poco altro. Si è così costruita una sequenza di episodi poco più che didascalica, e per questo sterile.

Tutto lo spazio liberato è stato allora occupato da altro. Le cronache si sono riempite di parole come «teppisti», «distruzioni», «saccheggi» che, sì, sono elementi della cronaca e vanno raccontati, e sono anche parte del dibattito, ma dovrebbero costituire una parte soltanto del racconto, non l’unica. Si è insomma subito spostata l’attenzione sulle conseguenze dell’omicidio di Floyd senza darne altrettanta a tutto ciò che quell’omicidio precede e spiega.

Non è stato evidentemente un problema soltanto italiano. Rebecca Solnit su The Guardian ha osservato come sia «sconcertante che le persone siano più colpite dai vetri rotti che dagli omicidi alla luce del sole». Quindi, ha provato a rimettere le cose in prospettiva: «Tra distruggere dei beni materiali e ferire degli esseri umani c’è una grande differenza e nel corso dei disordini scoppiati negli Stati Uniti dopo l’uccisione di George Floyd, tutta la violenza nei confronti degli esseri umani, con alcune eccezioni, è venuta dalla polizia».

Del resto, Danielle K. Kilgo su The Conversation ha fatto notare come «le posizioni dell’opinione pubblica sulle proteste e sui movimenti sociali che ci sono dietro sono in larga misura plasmate da ciò che le persone leggono o vedono sui mezzi d’informazione. Questo conferisce ai giornalisti un enorme potere nell’orientare il racconto di una manifestazione». Ecco, allora, che a maggior ragione colpisce il tono del racconto che abbiamo letto in Italia.

Nella condanna della violenza che ha accompagnato le proteste dei giorni scorsi, pare infatti non esserci un tentativo di comprendere anche le ragioni della rabbia che la società americana sta esprimendo. A volte, sembra addirittura di scontrarsi con una idea vagamente classista dei rapporti sociali, ed è evidente il riflesso d’ordine che percorre parte di del dibattito. In questo modo si dà voce ad una posizione piuttosto diffusa, la quale giudica ma non spiega.

Un punto di vista diverso – e molto sottile per la mole di argomenti che sottintende e le prospettive che apre se messo in relazione con la posizione assunta dai più – lo si trova nelle parole affidate dal reverendo Jesse Jackson al Corriere della Sera. «Violence is the american way. La violenza – spiega Jackson, parlando della violenza di oggi e di quella dell’epoca di Martin Luther King – è lo stile di vita degli Stati Uniti: dal genocidio dei nativi alla schiavitù degli afroamericani. La non violenza, che caratterizzava le nostre manifestazioni, è controcultura».

Fortunatamente, in un dibattito pubblico per lo più monocorde, alcune eccezioni ci sono state. L’intervista al reverendo Jackson, appunto. Ma anche quella a Noam Chomsky uscita sul Manifesto. In essa il linguista fornisce conclusioni simili a quelle dei più: «L’esperienza ci insegna che [la violenza] non è una scelta saggia: di solito ha come unico risultato di incrementare il sostegno dell’opinione pubblica verso una repressione ancora più dura». Ma alla base di questa conclusione non c’è un riflesso d’ordine bensì un ragionamento capace anche di dar conto dello stato delle cose negli Stati Uniti. E, dunque, delle ragioni della rabbia, della povertà, della esclusione di larghe fette di società dalla possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita. Insomma, di «400 anni di brutale repressione» e di come, ad esempio, la criminalizzazione dei neri in passato abbia fornito la base per avere a disposizione forza lavoro quasi a costo zero e senza possibilità di protestare, e di come anche su questo si sia fondata la potenza statunitense.

Insomma, «tutti applaudivano – ha scritto giustamente lo storico Alessandro Portelli sul Manifesto – quando un grande scrittore come James Baldwin, sugli echi biblici di un grande spiritual, ammoniva: la prossima volta il fuoco. Bene, la prossima volta è questa, il commissariato di polizia a Minneapolis brucia davvero. E adesso che le parole di Baldwin diventano fatti, tutti a stigmatizzare la violenza come se non li avessero avvertiti prima, invece di domandarsi che cosa potevamo fare perché non fosse ancora una volta inevitabile e che cosa dovremo fare, quando i fuochi sembreranno spegnersi, perché non sia necessario che tornino a divampare un’altra volta».

Ecco allora che, a partire dal comune rifiuto della violenza, pare necessario e possibile ragionare su come a volte legalità e giustizia non si sovrappongano più. Ed è per questa strada che si aiuta la ricerca di soluzioni che non includano la violenza poliziesca o i saccheggi. Il fatto è che, prendendo a prestito le parole del reverendo Jackson, anche questa probabilmente è controcultura.

L’alternativa sta appunto nella cultura maggioritaria che peraltro non dispiace al potere. Sta nei toni emergenziali e scandalizzati che hanno attraversato il dibattito di questi giorni. Sta nell’assunzione di una posizione d’ordine rigida che, per propria natura, non può permettersi dubbi né profondità di ragionamento e che afferma se stessa come l’unica posizione responsabile che sia possibile assumere di fronte agli eccessi. Inevitabilmente, per questa strada si finisce per difendere lo stato delle cose. Si diventa insomma un po’ conservatori. Il che è legittimo ma si deve essere consapevoli delle conseguenze.

E allora, al netto dell’ovvia e necessaria contestualizzazione, tornano in mente certe parole di uno del leader nonviolenti più importanti di sempre, Martin Luther King. E, in particolare, quel passaggio della Lettera dal carcere di Birmingham nel quale egli afferma di essersi quasi convinto che «il principale ostacolo per il nero, nella sua marcia verso la libertà» non sia tanto l’uomo bianco del Ku-Klux-Klan quanto invece il «bianco moderato, che è più devoto all’ordine che alla giustizia» e «che con fare paternalistico crede di poter stabilire il calendario delle libertà di un altro uomo». Era il 1963.

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