Diritti

Gli sposi-bambini e la violenza strutturale. Il peggio è ben oltre la statua

12 Giugno 2020

Proviamo per un attimo a sgombrare il campo dall’ identità di Indro Montanelli in quanto autorità nel mondo del giornalismo. E proviamo altresì a non appassionarci alla diatriba ‘tenere la statua/tirare giù la statua’.

Ma soffermiamoci, invece, su un paio di focus che la discussione pubblica sul mantenimento oppure no di un monumento a Montanelli nella città di Milano ha fatto emergere con preoccupazione.

Nella bontà che ogni discussione culturale democratica, aperta all’opinione pubblica, porta con sé, ci sono, infatti, alcuni inciampi che, a mio parere, nel 2020 non possiamo più permetterci di giustificare.

Il primo tratta di violenza strutturale, dunque non di cosa di poco conto, e ritorna pesantemente a dimostrare come, ancora oggi, si sia disposti in maniera peraltro trasversale ed eterogenea rispetto al contesto politico che stiamo vivendo, ad etichettare il matrimonio attraverso l’acquisto di sposi-bambini come una pratica da relegare, e quindi definire, attraverso il mantra dei costumi culturali di alcune società. Quel ‘là si fa così’, ottusamente pericoloso.

L’altro focus è strettamente correlato e riguarda ciò che noi oggi possiamo e soprattutto vogliamo riconoscere come simbolo portatore di significati condivisi nella nostra di società; quella che siamo sempre pronti, con un disarmante evoluzionismo di fondo, a raccontare come tra le più civilizzate.

Il terzo focus è vecchio come il mondo, e chissà mai se verrà davvero superato, e consiste proprio nel riaffiorare costante di un certo, pericoloso, grado di misoginia in ogni narrazione che riguardi la messa in discussione di un’autorità maschile, qualunque essa sia e qualunque storia porti con sé, e qualunque sia la caratura umana o professionale di cui si sta parlando. Quel ‘è maschio, è anziano, dunque parlava così’.

Partiamo dal concetto di ‘violenza strutturale’, di cui hanno scritto in molti e che vale sempre la pena di tenere come faro, quando si guarda ai contesti culturali di povertà.

Senza scendere nei dettagli delle varie sfumature che la letteratura storica e antropologica ne hanno dato e continuano a darne, ritengo la violenza strutturale la maniera oggi più subdola, in quanto introiettata nelle culture che la subiscono, per ‘tenere le persone al proprio posto’. Basta questo nell’ economia del nostro discorso.

Ciò vale soprattutto quando a governare è uno stato perenne di polizia, gerarchicamente ordinato, fiancheggiato da pulsioni ereditate e mai superate dal colonialismo. Dare in sposa una bambina ad un uomo bianco, o comunque dare in sposa una bambina per ragioni di mantenimento di relazioni di potere, di commercio, di prestigio, non è un’azione che si possa relegare ad un tempo di una storia che non c’è più e che si possa chiudere come si chiude un libro che racconta un’epoca.

Vendere e dare in matrimonio i bambini è una pratica a tutt’oggi esistente e che non rappresenta affatto la cultura presso la quale questa modalità viene praticata, al contrario rappresenta in maniera innegabile (e ingiustificabile dal punto di vista della violazione dei diritti umanitari) la sofferenza, la miseria, la povertà, la sottomissione a regimi che praticano ancora oggi la violenza strutturale. E che su di essa basano i loro equilibri politici.

Questo è il punto dirimente quando si decide di raccontare la narrazione di Montanelli come una boutade di un uomo che ripercorre la propria esistenza e parla di un passato che non c’è più. Innanzitutto perché non si tratta di un passato che non c’è più, ma, invece, di un presente tutt’ora esistente, il quale perpetra crimini che non ci possiamo permettere di definire boutade, nostalgie, narrazioni storiche isolate.

Il secondo punto va da sé. Perché dovremo deciderci su cosa vogliamo definire come simboli rappresentativi della nostra di cultura. Quali sono i simboli che vogliamo portare con noi, in un mondo globale nel quale non possiamo non riconoscere l’esistenza della sofferenza, della povertà, della violenza umanitaria, strutturale?

La domanda è dirimente. Non tanto per la statua di Montanelli in sé, quanto per il significato condiviso nella nostra comunità circa ‘quel racconto’, ‘quella narrazione’, con ‘quella misoginia’ che non è relegabile a sfondo, ma è invece sostanza con la quale dovremo prima o poi fare i conti.

Sia che si decida di tenere o di tirare giù una statua, perché, a mio parere, quel che conta davvero è che non dobbiamo prendere una decisione sul monumento; ma la decisione da prendere è su noi stessi e la nostra di visione culturale, sull’appianamento di quella indifferente ignoranza con la quale continuiamo a guardare il mondo.

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