Diritti

Gli anziani non devono votare: ce lo chiede il progresso

25 Ottobre 2019

Grillo dixit: “Se togliessimo il diritto di voto agli anziani?”

Un grande “se”. Gigantesco. Non una boutade. Bensì, una convinta provocazione lanciata sul totemico blog dal padre del pentastellismo. Il cui scopo dichiarato sarebbe quello di rendere la democrazia più efficace. Con le giovani generazioni, abituate a concepirla come ager paturius, pronte a riprendersi definitivamente la scena e con le vecchie generazioni destinate a svernare tra le mitezze di uno stato di minorità politica.

Il tutto in virtù di un invecchiamento su larga scala dell’utenza democratica. Di un’anzianità che tendenzialmente, statistiche alla mano, non vuole proprio saperne di progredire. Di un’incongruenza strutturale da parte di chi, di fatto, ha facoltà di decidere dell’altrui futuro senza poterne disporre.

Argomentazioni, quelle grillesche, in grado di scatenare, prevedibilmente, un certo scompiglio, dividendo in fazioni la platea italica, già abituata, in linea di massima, alla veneranda contrapposizione vecchi/giovani e smaniosa di contrapposizioni in generale.

Nello specifico, parliamo di una contrapposizione talmente grassa da essere mungibile ad libitum. Che sa, a intenderla con spirito nobile, di trincea a difesa delle nuove generazioni bistrattate e, perché no, del giustamente bistrattato giovanilismo. Ma che sa anche, volendo esser maliziosi, di investimento ruffiano nel bacino elettorale più verdeggiante. Con la speranza, in tempi di riscossione, di una copiosa spremitura di consensi: e, in pieno corso populista degli eventi, la malizia è d’obbligo quando l’irrealizzabilità della proposta appare così concreta.

Tuttavia, pur non annusando l’acre odore del realismo, riteniamo le provocazioni grillesche meritevoli di approfondimento. Perché, a nostro avviso, oltre a essere smontabili in base a scontatissime questioni di principio, rivelano – cosa più importante e inaspettata – un’inclinazione tipica di una certa linea di pensiero sedicente progressista. Secondo la quale il suffragio andrebbe garantito solo a coloro che si allineano ai dettami del “progresso”: come se il concetto di “progresso” fosse monolitico, non problematico e non includesse di per sé l’allargamento del diritto di voto tra le proprie prerogative.

Capiamoci, ci sono due questioni in ballo. La prima riguarda il conflitto di interessi tra giovani e anziani. La seconda riguarda, stando alle indicazioni demoscopiche, l’aumentare del tasso di conservatorismo con l’aumentare dell’età.

Questione numero uno: se ammettiamo che “le persone dovrebbero avere il potere di influenzare le decisioni in proporzione alla misura in cui sono suscettibili di sostenere le conseguenze di tali decisioni”, perché limitarci alla scrematura del solo corpo elettorale su base anagrafica?

Non sarebbe opportuno rivedere anche i criteri di eleggibilità, essendo gli eventuali eletti senescenti ancora più addentro al potere decisionale rispetto agli elettori medesimi? E, se così fosse, quale sarebbe la soglia oltre la quale un libero cittadino si potrebbe considerare politicamente vecchio, quindi declassabile a cittadino di serie b indegno di rappresentanza?

Domande che la dicono lunga “sull’efficacia democratica” e sul profondo senso di uguaglianza insiti in una simile “provocazione”. Ma che vengono eluse con un approccio, definito antidiscriminatorio, poggiante sul seguente presupposto: “Affinché vi sia discriminazione vi deve essere un trattamento diverso tra due o più gruppi/identità basato su alcune caratteristiche arbitrarie”, mentre “le politiche differenziate per età non dividono la popolazione in due o più gruppi, poiché tutti, alla fine, diventiamo anziani. Quindi non c’è ingiustizia”.

Chiaro, no? Siccome siamo tutti destinati all’invecchiamento, nessuno può considerarsi davvero discriminato perché, prima o poi, ciascuno di noi, viva Dio, sarà discriminato. Non c’è nulla di arbitrario in tutto ciò, per carità. Ci troviamo al cospetto di un assioma non spettinabile: il giovane, di default, sa decidere sempre meglio del vecchio, è più efficace; una scoperta rivoluzionaria, l’ennesima, consegnata dal grillismo alla controstoria della democrazia. Non teoria politica, bensì poesia politica.

Questione numero due: “I dati ci dicono che gli anziani non amano particolarmente il progresso, scelgono risultati più vicini al loro stile di vita. Durante le elezioni negli Stati Uniti e nel Regno Unito, le persone con più di 65 anni – rispetto ai 30enni – avevano quasi il doppio delle probabilità di essere contrari ai matrimoni gay; il doppio delle probabilità di essere pro-Brexit; la metà delle probabilità di sostenere la legalizzazione della marijuana; quasi cinque volte meno propensi a voler spendere soldi per l’istruzione; 60% in più di probabilità di votare per Donald Trump; e quasi il 50% in più di probabilità di credere che gli immigrati avessero un impatto negativo sulla società, così come un forte disinteresse verso la salvaguardia del clima, che diminuisce man mano con l’età”.

Insomma, senescenza e conservatorismo andrebbero di pari passo. Eppure, anche dando credito alla demoscopia, dovremmo chiederci: non sarebbe il caso di piantarla di teorizzare, più o meno esplicitamente, l’istituzione di patenti elettorali per allontanare dalle urne tutti coloro che hanno un’opinione politica diversa dalla nostra?

E ancora: non sarebbe meglio se il pensiero progressista si concentrasse di più sul persuadere gli scettici della propria giustezza anziché dibattere su velleitarie ipotesi di suffragio ristretto (agli illuminati)? Ipotesi, ribadiamo, che sanno davvero poco di “progresso” e che a cadenza regolare saltano fuori: proprio in occasione del referendum sulla Brexit, un noto editorialista del Washington Post lanciò una provocazione orientata in questa direzione.

Per concludere: meglio una democrazia inefficace, molto meglio.

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