Asia
Genocidio di musulmani nel Myanmar del Nobel Aung San Suu Kyi
Per la prima volta dopo oltre 50 di regime militare, Myanmar ha un presidente civile. È l’economista Htin Kyaw, vicinissimo alla leader della Lega nazionale per la democrazia (NLD l’acronimo in inglese) Aung San Suu Kyi. Il paese sta vivendo una fase storica da quando l’NLD si è aggiudicata quasi l’80% dei seggi del parlamento alle elezioni dello scorso novembre. E l’elezione di Htin Kyaw da parte del parlamento birmano non può che accrescere l’ottimismo della comunità internazionale sul Myanmar, dove Aung San Suu Kyi è ancora impegnata a negoziare i termini della transizione democratica con i militari. Il tempo stringe: il nuovo governo assumerà i pieni poteri il prossimo 30 marzo.
Eppure non tutti hanno motivo di essere ottimisti. Secondo esperti internazionali, in Myanmar, la minoranza etnica (e religiosa) dei Rohingya è sottoposta a un lento ma inesorabile genocidio. E neanche Aung San Suu Kyi (che, va ricordato, è stata insignita del premio Nobel per la pace nel 1991) ha dato loro segnali promettenti finora, anzi. Quando, a pochi giorni dalla vittoria elettorale di novembre, un esponente dell’NLD ha chiarito che aiutare i Rohingya non è una priorità, Aung San Suu Kyi non ha fatto una piega. Forse però, la sua è un’indifferenza apparente. Una tattica in un paese dove i militari continuano ad avere molto potere.
Insomma, bisogna pazientare. Ma il tempo è un lusso che i Rohingya non possono permettersi. La loro situazione è insostenibile. Lo conferma Penny Green, docente di diritto e globalizzazione all’università Queen Mary di Londra, e direttrice dell’International state crime initiative. Tra l’ottobre del 2014 e il febbraio del 2015 la docente ha guidato un team di ricercatori nello stato birmano del Rakhine, dove vive la maggior parte dei Rohingya.
«In Myanmar c’è una discriminazione di stato contro i musulmani in generale, e i Rohingya appartengono proprio a quella fede. – racconta la Green agli Stati Generali – Ma quando ci siamo recati nel Rakhine volevamo rispondere a una domanda precisa: quello che i Rohingya stanno subendo è un genocidio? Ebbene sì, i dati che abbiamo raccolto provano che quello che sta accadendo in Myanmar è un genocidio».
«Nel Rakhine non è stato solo istituito un apartheid che per molti aspetti è ben più duro di quello sudafricano. È in atto la debilitazione sistematica della popolazione Rohingya. – continua la docente – In pratica, la stanno distruggendo a forza di privazioni, malnutrizione, mancanza di assistenza sanitaria, umiliazioni psicologiche, abusi, violenze. È una fase tipica di ogni genocidio, che di solito precede quella finale. Lo sterminio».
Quella della Green non è una voce nel deserto. Anche la Lowenstein international human rights law clinic dell’università di Yale ha dato l’allarme lo scorso ottobre. Secondo il suo rapporto, che raccomanda anche alle Nazioni unite di indagare urgentemente sulla situazione nel Rakhine, ci sono prove consistenti che sia in atto un genocidio contro i Rohingya. Pochi giorni dopo, il consigliere speciale del segretario generale delle Nazioni unite per la prevenzione dei genocidi, e la consigliera speciale per la responsabilità di protezione, hanno rivolto un appello al Myanmar. Seppur con il linguaggio felpato della diplomazia, hanno puntato il dito contro i “decenni di discriminazione istituzionalizzata” subiti dai Rohingya, soffermandosi proprio sulle tensioni nel Rakhine. E hanno chiesto “ai leader che formeranno il nuovo governo birmano di impegnarsi per la democrazia, lo stato di diritto e i diritti umani”.
In effetti le discriminazioni contro i Rohingya (che, peraltro, non hanno potuto votare alle ultime elezioni) sono di vecchia data. Lo spiega agli Stati Generali Jonathan Bogais, docente della School of social and political sciences presso l’Università di Sidney, e specializzato in conflitti nel Sudest asiatico. «Già nel ‘92 quasi 300mila Rohingya si sono rifugiati in Bangladesh per sfuggire alle vessazioni dell’esercito birmano, soltanto per essere rispediti indietro un paio d’anni dopo».
Ma la situazione è precipitata nel 2012, quando nel Rakhine scoppiarono le violenze che, a quattro anni di distanza, segnano ancora la vita di migliaia di Rohingya. «Gli attacchi, fomentati da nazionalisti buddisti, hanno causato quasi 200 morti e 100mila sfollati» continua Bogais. Sittwe, la capitale del Rakhine, venne messa letteralmente a ferro e fuoco: furono appiccati incendi, molte case e attività commerciali vennero distrutte, e migliaia di Rohingya furono trascinati in un’area militarizzata dalla quale non poterono più uscire.
Ancora oggi, spiega la Green, Sittwe porta il segno di quelle violenze. «Una volta era una città vivace e multiculturale. I Rohingya e gli altri abitanti del Rakhine andavano a scuola insieme, gli uni partecipavano agli eventi culturali e religiosi degli altri, c’era un grado di integrazione piuttosto alto. Ora l’apartheid è a dir poco evidente: abbiamo visto moschee abbattute o in rovina. Gli abitanti del Rakhine non vedono più i Rohingya, perché questi sono confinati nei campi oppure nel ghetto di Sittwe».
Già, perché dopo le violenze di 4 anni fa, la zona del centro della capitale dove vivevano molti Rohingya è stata isolata dal resto della città e circondata da diversi checkpoint. «Per loro è estremamente difficile uscirne. Possono farlo solo un paio di volte a settimana, con un autobus che li porta a trovare i loro familiari nei campi. – dice la Green – Ma non possono più entrare nella città, sono tenuti sotto strettissima sorveglianza».
Attualmente quasi 5mila Rohingya vivono nel ghetto di Sittwe e altri 140mila nei campi profughi, «luoghi realmente orribili – continua la Green –. Neanche nel ghetto se la passano bene, ma nei campi la gente è estremamente affamata, vive solo grazie agli aiuti alimentari dell’ONU, che sono sempre in ritardo e insufficienti; le persone, soprattutto i bambini, muoiono per disturbi come la dissenteria. Regna la depressione. Nei campi le condizioni sono davvero spaventose, e non possono uscirne, non hanno alcuna libertà di movimento. In sostanza, ai Rohingya viene negato tutto ciò ci rende umani».
Il Myanmar li considera un corpo estraneo musulmano in una nazione orgogliosa della propria cultura e tradizione religiosa. «Secondo tutti (politici, autorità locali e gran parte dei birmani di fede buddista), i Rohingya sono bengalesi, immigrati illegalmente, e per giunta hanno una religione diversa. – spiega Bogais – Pertanto la loro identità non viene riconosciuta. Si tratta di una posizione sostenuta anche da Aung San Suu Kyi».
Chi ne ha i mezzi (e la forza) prova ancora a scappare. Lo hanno dimostrato i Rohingya che nei mesi scorsi hanno cercato di fuggire dal paese persino via mare, «con esiti terribili. Centinaia, probabilmente migliaia di loro sono morti nel golfo del Bengala e nel mare delle Andamane» dice agli Stati Generali Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International in Italia.
«Ci sono stati altri disordini nel 2014 e 2015 – dice Bogais –, e un numero imprecisato di Rohingya è scappato via mare verso l’Indonesia e l’Australia o via terra per entrare in Thailandia. Tanti di loro sono caduti nelle mani dei trafficanti di esseri umani. Negli ultimi mesi sono state scoperte delle fosse comuni che fanno pensare che i trafficanti li uccidano sistematicamente. In mare invece, li abbandonano su barche assolutamente inadatte alla navigazione con pochissimi (quando non inesistenti) mezzi di sussistenza. Purtroppo c’è una totale mancanza di dati a riguardo nel Myanmar, quindi è impossibile stabilire quanti siano i morti».
Nessun governo della regione pare disposto ad accogliere i Rohingya. «Neanche l’Indonesia e la Malesia, che avrebbero potuto manifestare una solidarietà di tipo religioso – spiega Noury – li hanno accolti. Li hanno trattati come invasori, lasciandoli in mare alla deriva per settimane. Alla fine, costrette dalla comunità internazionale e con molto fastidio, Thailandia, Indonesia e Malesia hanno cominciato a soccorrere le imbarcazioni e portare a terra delle persone. Che però hanno ricevuto solo un permesso di un anno. Poi dovrebbe occuparsene la comunità internazionale».
Tragicamente i Rohingya non trovano condizioni di vita granché migliori neanche quando riescono a raggiungere un altro paese. Vengono comunque segregati in campi profughi senza il permesso di lavorare, in condizioni di estrema povertà e cattiva igiene. «Secondo l’agenzia dell’ONU per i rifugiati (ACNUR) nei campi di Indonesia e Malesia ci sono circa 3mila Rohingya, ed entrambi i governi hanno chiarito che non ne accetteranno altri. Non vogliono dare l’impressione di offrire asilo – spiega Bogais –. La politica australiana a riguardo poi (condivisa da tutti i partiti) ha esacerbato una situazione già di per sé delicata. La marina australiana ha l’ordine di intercettare le imbarcazioni dirette in Australia mentre si trovano ancora in acque internazionali, e spingerle in acque indonesiane. Una pratica che è stata fortemente criticata dall’Indonesia».
Secondo gli esperti sentiti dagli Stati Generali, l’accanimento contro i Rohingya non è da imputarsi solo a una diversità di fedi. La politica ha un peso, ad esempio. «La religione è l’elemento utilizzato per mobilitare la popolazione locale. – dice la Green – Il Rakhine è probabilmente lo stato più povero del paese. È una terra gravemente sottosviluppata e la popolazione è molto povera. I buddisti si vedono come i suoi autentici abitanti, e si sentono molto trascurati dal governo. Manipolare questo senso di ingiustizia e incanalarlo contro la minoranza Rohingya è molto facile, ed è proprio quello che sta facendo il regime».
Secondo Bogais non bisogna neanche dimenticare il ruolo della retorica nazionalista dei theravada (la tradizione buddista più diffusa nel paese). «Sentono la loro identità culturale minacciata dalle enormi popolazioni dei paesi vicini, che hanno religioni diverse – spiega l’esperto –. In Cina vive un miliardo e mezzo di persone, e si praticano confucianesimo, taoismo e buddismo; in India, anch’essa con più di un miliardo di abitanti, l’80% è induista e il 13% musulmano; e in Bangladesh gran parte degli oltre 150 milioni di abitanti è musulmana. In più gli ultra-nazionalisti sono fermamente convinti che l’Islam non sia compatibile con i valori del buddismo theravada». E in effetti i Rohingya vengono spesso accusati di organizzare il jihad nei campi-profughi, spiega la Green. «Inutile dire che noi non abbiamo trovato traccia di nulla di simile, la sola idea è inconcepibile. Nei campi la prima e unica occupazione è cercare di sopravvivere».
Dietro la persecuzione dei Rohingya si nascondono anche ragioni economiche. «Con la pulizia etnica – continua Bogais – molti terreni che prima erano occupati dai Rohingya sono rimasti liberi, proprio adesso che il valore della terra sta crescendo in tutto il Sudest asiatico. In un contesto così corrotto non è da escludere che nel Rakhine avvenga presto un processo simile a quello accaduto negli ultimi anni in Cambogia, dove moltissimi terreni sono stati confiscati per farne piantagioni di gomma».
Secondo gli esperti sentiti dagli Stati Generali, ci sono poche speranze che per i Rohingya possa verificarsi presto un qualche miglioramento. Anche perché la persecuzione è tale, e le condizioni di vita così precarie, che neanche fuori da Myanmar riescono ad organizzarsi politicamente. «Ci sono delle associazioni di Rohingya in diversi paesi, alcune cercano di ottenere un po’ di sostegno da altri governi – dice Bogais –. Ma sono piuttosto divisi e poco coordinati, quindi hanno uno scarsissimo impatto». Concorda la Green: la diaspora è troppo debole. «I Rohingya non sono rappresentati da nessuno, sono un popolo dimenticato, il mondo è totalmente indifferente. È davvero una situazione disperata e, almeno per ora, non c’è nessuna speranza». Ma forse una speranza c’è, ed è proprio Aung San Suu Kyi.
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