Diritti
Gaza, l’Europa irrilevante, la Corte dell’Aja. Intervista a Micaela Frulli
Sono passati più di cento giorni da quel 7 ottobre che ha dato il via all’escalation di operazioni militari condotte dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza che ha portato, sinora, a circa 25mila morti, un totale di più di 75mila feriti e quasi 2 milioni di sfollati (1,9 milioni di palestinesi – l’85% della popolazione di Gaza).
Davanti a tutto ciò, incapace di prendere una posizione netta (“I cento giorni di Gaza resteranno una macchia indelebile sulla coscienza dell’umanità” ha tuonato il portavoce dell’UNRWA, Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso dei rifugiati palestinesi), la comunità internazionale ha deciso di affidare il caso alla giustizia internazionale. Risale all’11 gennaio il ricorso presentato dal Sudafrica davanti alla Corte internazionale di giustizia per chiedere la cessazione degli attacchi di Israele sul territorio palestinese, insieme alle accuse al governo di Netanyahu di aver violato la Convenzione ONU sul genocidio. “Nelle zone del conflitto non esiste più un solo luogo sicuro” hanno dichiarato gli avvocati di Pretoria davanti al tribunale dell’Aja “e Israele ha intenzione di andare avanti così finché di Gaza non resteranno solo macerie”. A queste accuse, il premier israeliano ha risposto dichiarando che continuerà l’operazione militare nella Striscia di Gaza finché Hamas non sarà smantellato: “Nessuno ci fermerà. Nessuno riuscirà a fermarci, né tantomeno L’Aja”. Al suo fianco, Regno Unito e USA: sono di pochi giorni fa le dichiarazioni del Segretario di Stato americano Antony Blinken, che ha parlato di accuse “prive di fondamento”; allo stesso modo, si è detto contrario all’intervento della Corte il Ministro degli esteri britannico David Cameron, secondo il quale l’iniziativa del Sudafrica rischierebbe di “distrarre il mondo” dagli sforzi per trovare una reale soluzione al conflitto.
Di questi sviluppi, e di quale potrebbe essere il ruolo della giustizia internazionale in tale scenario, abbiamo parlato con Micaela Frulli, Professoressa Ordinaria di Diritto internazionale presso l’Università di Firenze ed esperta di diritto penale internazionale e diritto umanitario.
In questi giorni abbiamo assistito alle udienze che si sono tenute davanti alla Corte dell’Aja, chiamata dal Sudafrica ad intervenire per porre fine a quanto sta avvenendo nella Striscia di Gaza. Cosa può fare la giustizia internazionale, in concreto, per risolvere o, quantomeno, tentare di arginare il conflitto in corso?
In primo luogo, quando parliamo di “giustizia internazionale” dobbiamo fare un chiarimento. In questi giorni si è molto parlato della possibilità di intervenire con il diritto internazionale per tentare di fermare il massacro di Gaza – ma in realtà è da anni che le azioni commesse da Israele sulla Striscia di Gaza riempiono i fascicoli dei giudici dell’Aja.
Volendo semplificare, gli organi di giustizia internazionale che si stanno interessando alla questione sono due. Da un lato c’è la Corte penale internazionale, che indaga sulle violazioni commesse da Israele nei confronti del popolo palestinese da diversi anni (risale al 29 ottobre 2023 l’ultima visita del Procuratore della Corte a Rafah, al confine tra Egitto e Gaza, in occasione la Corte ha chiarito come siano in corso indagini sui crimini commessi a Gaza dallo Stato di Israele); dall’altro lato, c’è la Corte internazionale di giustizia – che è, per intenderci, l’organo di cui si è parlato in questi giorni. In questo caso, siamo davanti a un procedimento internazionale più interessante: la Corte, che già in passato si era occupata di questioni legate al rapporto tra Israele e Palestina, stavolta è stata chiamata a emettere nei confronti di Israele un’ordinanza vincolante, che quindi obbligherà Israele e gli Stati parte a compiere – o cessare – determinate azioni. Per ottenere questa misura, il Sudafrica ha presentato ricorso il 29 dicembre: ora occorre aspettare di vedere cosa decideranno i giudici, e mi aspetto che – pur con i tempi della giustizia internazionale – la Corte farà sentire la sua voce. In molti auspicano che dall’Aja si chiederà un “cessate il fuoco”: sarà così? Israele lo rispetterà? Oppure, i giudici potrebbero richiedere che sia garantito l’accesso agli aiuti umanitari – obiettivo già più realizzabile, in concreto. Si potrebbe ordinare a Israele di fare in modo che la situazione non degeneri ulteriormente – anche se certo, il rischio di uno ‘stallo’ c’è. Ricordiamoci sempre che queste misure sono vincolanti, ma abbiamo già visto cosa succede se non vengono messe in atto: in sostanza, poco o niente.
In che senso, poco o niente? Non abbiamo detto che si tratta di misure vincolanti? E poi, se le cose stanno così, allora per quale motivo se ne parla tanto?
La giustizia internazionale, che nasce dalla volontà degli Stati di unirsi, diciamo, per darsi delle “regole” nello scacchiere internazionale (la Corte internazionale di giustizia nasce a San Francisco, nel 1945, dalla volontà degli Stati ONU di creare un organo super partes capace di risolvere le controversie tra i paesi), dipende dalla volontà di chi l’ha fondata. Per questo, non prevede dei meccanismi di esecuzione “tout court” come i tribunali di diritto interno, non ha un proprio corpo di polizia: il fatto che i suoi provvedimenti siano rispettati o meno dipende esclusivamente dalla volontà degli Stati. Pensiamo al caso di Russia e Ucraina: vi ricordate di come la Corte penale internazionale aveva, nel marzo 2023, emesso un mandato di arresto nei confronti di Putin? Ecco, come sappiamo bene Putin non è mai stato arrestato. Non è stato consegnato dalla polizia russa ai giudici dell’Aja, e nessuno è andato a prenderlo a Mosca o ovunque si trovi (ammesso che qualcuno poi lo sappia, dove effettivamente si trova Putin). Certo, la sua libertà di movimento è stata parecchio ridotta: quando la Corte penale internazionale emette un mandato d’arresto, gli Stati parte hanno l’obbligo di cooperare con l’Aja, e devono consegnare i latitanti qualora essi si trovino sul proprio territorio. Però, se Putin rimane a casa sua – o se si reca in Cina, ad esempio, o in qualunque altro Stato che non ha ratificato lo Statuto della Corte – nessuno può farci niente. Certo, sul piano delle relazioni internazionali un impatto c’è, e anche grosso: chi vuole cooperare con un “rogue State”? Chi si fida a farci degli affari?
E gli Stati parte della Corte internazionale di giustizia con cui Israele fa affari sono molti.
Infatti è proprio per questo motivo che, credo, c’è speranza che i provvedimenti della Corte internazionale di giustizia potranno avere una qualche efficacia: Netanyahu sa che, tra gli Stati parte della Corte internazionale di giustizia, c’è la stragrande maggioranza dei suoi partner diplomatici e commerciali. Israele non vuole e non può fare brutta figura davanti al mondo, il danno reputazionale che rischia è troppo grosso. E’ per questo motivo che, quando si sono presentati in udienza davanti alla Corte, gli avvocati israeliani hanno portato anche difese “nel merito”. Hanno contestato la giurisdizione, si; però hanno anche invocato la legittima difesa. Israele vuole dimostrare di conoscere bene il diritto internazionale, Israele che da sempre si professa democrazia.
In questo quadro delicato, cosa si può dire sulla posizione dell’Unione Europea?
Al di là dei tecnicismi che riguardano i meccanismi ascrivibili all’Unione Europea (l’Alto rappresentante UE per gli affari esteri e la sicurezza ha dichiarato di aver invitato Israele e Palestina al Consiglio degli esteri che si terrà il 22 gennaio, per “cercare insieme una soluzione al conflitto”), quello che si può dire è che, finora, il ruolo dell’UE appare come piuttosto marginale. Finora, l’Europa ha fatto ben poco per la situazione a Gaza, e si può ipotizzare che andrà avanti così. Del resto, cosa può fare l’Unione quando sono gli stessi Stati UE a mandare di continuo segnali discordanti? Basta pensare che la Germania ha dichiarato che interverrà davanti alla Corte internazionale di giustizia a fianco di Israele (di contro, è di poche ore fa la notizia della scesa in campo della Slovenia in difesa della Palestina). No, l’Europa in questo contesto non conta niente. Sono ben altri gli Stati che si sono fatti avanti a fianco del Sudafrica, mentre i paesi europei rimangono a guardare.
Torniamo al diritto internazionale. Immagino che la questione più delicata riguardi l’inquadramento di Hamas.
Allora, bisogna prestare molta attenzione quando si parla di Hamas, e il rischio di essere fraintesi è alto. Il problema è alla radice, e riguarda la doppia natura di Hamas: gruppo armato da un lato, movimento politico più ampio dall’altro. Proviamo a fare lo sforzo di tener separate le due cose. Poi, se mi chiede cosa prevede il diritto internazionale: ai sensi del diritto internazionale (il riferimento è al principio di autodeterminazione dei popoli, art. 1 para. 2 della Carta ONU), un diritto, in capo ai popoli, di difendersi – anche con le armi – per contrastare l’occupazione del proprio territorio esiste. E’ un principio fondamentale del diritto internazionale, norma imperativa universalmente riconosciuta. Ma attenzione, questo diritto ha un limite: qualsiasi azione deve essere condotta nel rispetto del diritto umanitario, ossia delle norme che regolano il diritto di guerra. Occorre rispettare il principio di distinzione: in un conflitto, non si possono colpire i civili. Non si possono uccidere, non si possono prendere come ostaggi, non si possono imprigionare. Sono emerse notizie strazianti a proposito dei fatti del 7 ottobre: anche qui, si tratta di gravi violazioni del diritto internazionale – è altrettanto doveroso ricordarlo. E poi c’è anche un altro punto che a mio parere è delicato. Abbiamo detto che un popolo può difendere il proprio territorio dall’occupazione, giusto? Ecco, ora bisogna capire se Israele sta occupando la Striscia di Gaza. Cosa si intende per occupazione? Cosa vuol dire occupare un territorio? C’è chi sostiene che si possa parlare di occupazione solo quando, per anni, le truppe militari di un paese ne invadono un altro. Sappiamo che, però, per il diritto internazionale non è così. L’art. 42 del Regolamento dell’Aja del 1907 stabilisce che “un territorio è considerato come occupato quando si trovi posto, di fatto, sotto l’autorità dell’esercito nemico“. E sappiamo anche che, da anni, la Striscia di Gaza è recintata, controllata, pattugliata via terra e via mare da Israele. Non è forse così?
Un’altra questione spinosa riguarda le prove. Sono moltissime le immagini che arrivano ogni giorno da Gaza, e intorno ad esse si crea tanta confusione.
La questione rappresenta un tema altrettanto delicato. Da Gaza arrivano tante immagini, è vero, ma quali sono affidabili? Per fare chiarezza su questo punto delle indagini imparziali e indipendenti sono importantissime. La comunità internazionale ha a disposizione diversi strumenti di fact-checking: ci sono le commissioni di inchiesta, ci sono gli investigatori della Corte penale internazionale… questi meccanismi hanno funzionato molto bene in passato, e potrebbero funzionare ancora. Il problema, però, è che Israele non permette a nessuno di accedere alle informazioni necessarie per ricostruire la verità – Israele non consente l’accesso a nessuno.
Tra le accuse mosse a Israele dal Sudafrica c’è quella, pesantissima, di genocidio.
Si tratta di un’accusa particolarmente grave, e siamo in attesa di vedere la Corte internazionale di giustizia cosa deciderà. E’ vero, è difficile accedere alle prove. Però è altrettanto vero che, davanti a noi, ci sono dei dati oggettivi: è spaventoso vedere in quanti, sinora, sono morti a Gaza. Si tratta di un numero di persone impressionante e già quello, di per se’, rappresenta una prova non indifferente della presunta volontà di Israele di eliminare il popolo palestinese su “scala larga, estesa e sistematica”. Poi, ci sono quelle inquietanti dichiarazioni rilasciate da diversi organi di Stato: nel ricorso che ha presentato il Sudafrica, ci sono pagine e pagine in cui si riportano gli insulti e le minacce scagliate contro il popolo palestinese che possono dimostrare, anche queste, un “intento genocidario”. Si è parlato dei palestinesi come di dei “mostri”, degli “animali umani”… si è dichiarata la volontà di “annientarli”, di “spezzar loro la schiena”… E’ assurdo. E’ assurdo perché si tratta di dichiarazioni impensabili, se si pensa che, a rilasciarle, sono stati i leader di uno Stato che dalla sua nascita ha tenuto a proclamarsi “Stato di diritto”. Quale Stato di diritto potrebbe mai rilasciare dichiarazioni del genere?
Ora che la Corte internazionale di giustizia è stata attivata, cosa possono fare ancora gli Stati per fermare la strage? Abbiamo detto che l’Unione Europea non sembra intenzionata a intervenire, e mi sembra di capire che fino a quando i giudici dell’Aja non si esprimeranno si possa fare ben poco. È così?
In realtà, la Convenzione internazionale per la prevenzione del genocidio (invocata dal Sudafrica nel ricorso del 29 dicembre) prevede che, nel momento in cui si paventa che un genocidio si compia, gli Stati parte intervengano anche a prescindere da quelli che sono i meccanismi e i tempi della giustizia internazionale. Secondo il trattato, infatti, davanti al rischio di un genocidio, gli Stati hanno l’obbligo di agire a livello diplomatico, esercitando pressioni, o con qualsiasi altro strumento, per impedire che ciò si verifichi. Non dimentichiamoci del ruolo importantissimo che giocano le relazioni politiche nello scacchiere internazionale. La Bolivia ha da poco interrotto i rapporti diplomatici con Israele, altri Stati hanno dichiarato di avere la stessa intenzione. Non dimentichiamoci della rilevanza delle relazioni commerciali. Ad oggi, chi ha deliberatamente dichiarato di voler interrompere le relazioni commerciali con Israele, a seguito dei crimini commessi dai soldati israeliani a Gaza? Quanti paesi, quanti Stati dell’Unione Europea?
Un’ultima domanda: cosa possiamo dire dell’Italia? Come si colloca in questo quadro il nostro paese?
Le dinamiche politiche che riguardano i rapporti tra Italia e Israele sono complesse, solo in parte leggibili attraverso la lente del diritto internazionale. Ma una cosa me la lasci dire: anche a prescindere dal conflitto in corso, l’Italia non è al passo con il diritto internazionale, e c’è necessità urgente che il nostro ordinamento sia aggiornato al più presto. Abbiamo parlato del potere degli Stati di intervenire nel conflitto aprendo procedimenti giudiziari nei confronti dei presunti responsabili dei crimini commessi a Gaza, giusto? Ecco, al momento, nel codice penale italiano i “crimini contro l’umanità” nemmeno esistono. Nessuno si è preoccupato di adeguare la normativa dalla ratifica dello Statuto della Corte penale internazionale, che risale al 1998 (noto anche come “Statuto di Roma”, peraltro). Il codice non è aggiornato, e l’ultimo progetto di riforma (il cd. “codice dei crimini internazionali” proposto dall’ex ministro Cartabia) è finito nel cassetto. Il reato di tortura è stato inserito nel nostro ordinamento nel 2017… e tuttora la sua sopravvivenza è messa a repentaglio. Come possiamo pretendere di contare qualcosa, di avere un qualche peso nella risoluzione di un conflitto internazionale se non abbiamo neanche gli articoli che servono nel codice penale? Poi certo, c’è chi avrà un bel dire che “il diritto internazionale non serve a niente, e i provvedimenti dei giudici internazionali rimarranno lettera morta”; si, va bene, ma cosa è stato fatto, da parte nostra, per fare in modo che non sia così?
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