Diritti
Fronte di Kharkiv, la vita sospesa dei civili in fuga
L’esercito russo martella senza tregua i villaggi lungo il fronte. Migliaia di civili in fuga vanno a ingrossare le file dei cosiddetti rifugiati interni: quasi 5milioni di persone, che dall’inizio della guerra, hanno dovuto abbandonare tutto e trovarsi un altro posto dove vivere in Ucraina lontano da pallottole, missili e colpi di mortaio. Alcuni sono riusciti a costruirsi una nuova vita. Ma per molti è stato l’inizio di un limbo senza fine.
Kharkiv (Ucraina) «Erano le otto e mezza di sera. Non sappiamo esattamente cosa ci abbia colpito» Qualunque cosa fosse, ha fatto il suo sporco lavoro. Al posto della casetta di Olga e Anatoli («domande sì, ma il nome di famiglia, no»), ora c’è un piccolo cratere e una distesa di macerie che sarà grande come un campo da calcetto. Cinquantasei anni lei, Sessantadue anni lui: i due vivono a Glushkivka, un paesotto di campagna, a soli dodici chilometri dalla linea di fronte, sotto il tiro dell’artiglieria russa. Fino a due anni fa, prima che scoppiasse la guerra, qui – al confine Nord-Est tra Ucraina e Russia – vivevano un migliaio di anime: c’erano campi da coltivare, animali da curare e tanto sudore, ma anche tante grivnie da fare. Poi il finimondo. Più o meno duecento persone tra cui Olga e il marito però ancora resistono: «Noi non ce ne andiamo. Questa è la nostra terra e poi Anatoli qui lavora: munge le vacche in una fattoria, che è rimasta aperta». Obietto che pure la coppia di anziani che vive a fianco, dopo che casa loro è andata praticamente in mille pezzi, ha chiamato la Croce Rossa per farsi evacuare. «E’ una loro scelta», mi risponde secca Olga. Prima di salutarci, mi permetto di fare un’ultima domanda: «Cosa sta facendo mio marito? Sta pulendo e cominciando a riparare casa», mi risponde ancora seccamente Olga, indicandomi Anatoli che, poco lontano, armeggia con dei pezzi di legno. «Non lo vede? Sta là». Lo vedo, sì. E’ che proprio non capisco come farà mai a rimetterla in piedi, sta casa. E mi chiedo anche – ma questo me lo tengo per me – se la loro sia una forma estrema di resilienza; oppure solo un principio di follia.
«Tagliano l’erba a 200 metri dalle esplosioni»
Saluto e vado, anzi torno nella villetta a fianco. Elena e Volodymyr Maslik, la coppia di anziani che ha chiesto di essere evacuata, ha già quasi finito di caricare le sue cose sul pullmino della Croce Rossa: oltre a trolley e sacchetti vari, hanno chiesto di portarsi dietro un cagnone nero e un gatto rosso che sembra il sosia di Garfield. Un secondo cane, però, sono costretti a lasciarlo a casa. Si chiama Bazooka; se ne occuperanno i soldati che sorvegliano la strada principale del paese che cingoli e combattimenti hanno ormai ridotto a una distesa di fango e buche. Saliamo tutti a bordo e ripartiamo per tornare da dove siamo venuti: Kharkiv, un milione e passa di abitanti; seconda città dell’Ucraina; una trentina di chilometri dal confine con Mosca.
Guardo fuori dal finestrino. Sotto i miei occhi passa un paesaggio punteggiato di ruderi: case, chiese, fabbriche: tutte ridotte in macerie. Chiedo ai due uomini dell’equipaggio – Andrei Shevchenko e Oleg Shiry – come diavolo sia possibile che ci siano persone che si ostinano a vivere in posti ridotti così, magari senza neppure acqua e luce perché tubi e cavi sono danneggiati. «Guarda, noi abbiamo visto gente che aveva magari esplosioni a 200 metri e stava lì a sistemare tranquilla il giardino. É come se si fossero adattati troppo alla guerra e avessero finito per vedere le cose in modo distorto. Quello che abbiamo notato, però, è che se alla fine si convincono a venire via, tornano alla normalità, dopo un po’», mi risponde Oleg; mentre Andrei, al volante, occhi fissi sulla strada, continua a fare zig-zag tra buche grosse come gomme da auto.
Chi si ostina, rischia grosso. «Mi ricordo il caso di una donna – dice sempre Oleg -. Siamo andati quattro volte da lei per evacuarla, perché stava davvero in un posto pericoloso. Ma niente: ogni volta ripeteva: non posso, devo occuparmi delle mie mucche. E ci assicurava: quando bombardano, sto al sicuro, in cantina. Ecco, l’ultima volta che siamo stati là, gli animali stavano bene, ma lei no; lei era morta».
Anche Elena e Volodymir, a furia di aspettare, a momenti la pagavano cara. La bomba che ha centrato la casa dei vicini non ha fatto una strage per puro miracolo. «Ma quella notte abbiamo davvero capito che Glushkivka non era più un posto sicuro. Abbiamo venduto il nostro pezzo di terra. Abbiamo preso poco. Ma che altro potevamo fare?»
Migliaia in fuga
Lungo la strada Andrei fa uno stop in un paesino. Qui c’è un cosiddetto punto di filtraggio: tutti gli evacuati devono essere identificati. «É per ragioni di sicurezza. Potrebbero esserci degli agenti russi tra loro che cercano di infiltrarsi», mi spiega un poliziotto che di nome fa Dima (ma anche lui chiede: «niente cognome, per favore»).
Elena e Volodymir mostrano i documenti. Qualche minuto e le formalità sono già concluse. Chiedo a Dima se le richieste di evacuazione sono tante. E lui mi risponde molto francamente che dipende dalla frequenza dei bombardamenti, degli attacchi: «Se arrivano tanti colpi, allora sì. Se no, no».
Ultimamente di colpi ne sono arrivati parecchi. Venerdì scorso, i russi hanno tentato di sfondare la linea difensiva a nord di Kharkiv. E anche sul fronte Est – dove sta appunto Glushkivka, il paesino di Elena e Volodymir – gli scontri si sono fatti più intensi. Oleh Syniehubov, il capo dell’amministrazione militare di Kharkiv, attraverso il suo profilo Facebook, ha invitato i civili ad allontanarsi da tutte le aree a rischio. E nel giro di poche ore – lo scorso fine settimana – sono stati evacuati 6.000 cittadini.
Ma un certo numero di persone non molla, osserva Dima: preferiscono comunque restare a casa loro: «Nei villaggi lungo il fronte, gli abitanti sono spesso contadini: allevano vacche, maiali e coltivano la terra; è così da generazioni. Per loro trovare un altro lavoro in città, a Kharkiv, o altrove, soprattutto se non sono più giovani, sarebbe molto complicato».
Fatto sta che chi rimane, per i poliziotti come Dima è un problema: «Ma l’Ucraina è una democrazia. Noi non possiamo forzare nessuno e se decidono di fermarsi, noi siamo praticamente obbligati ad aiutarli. Una volta la settimana facciamo il giro delle case e portiamo le cose di cui hanno bisogno: cibo, vestiti, medicine».
Ma è davvero solo per il lavoro che restano e rischiano di morire ammazzati? Dima ci pensa un attimo: «Dipende. In realtà – risponde -, qualcuno magari li aspetta, i russi. Ma – aggiunge – ci sono anche altre ragioni. Tanti, secondo me, temono che, una volta abbandonata casa e terra, lo stato non li aiuterà e si ritroveranno da soli ad affrontare un mucchio di problemi».
Il bivio
Il pezzo potrebbe anche chiudersi qui, anzi parecchie righe più in su, con i russi che attaccano e i civili che scappano. E amen. Quanti ne ho letti così, negli ultimi due anni; e pure negli ultimi giorni. Del resto diciamocelo: le storie più o meno tragiche di civili in fuga dalla guerra stanno al giornalismo come l’amore infelice alla letteratura: un classico. E lo confesso: sono stanco; e la tentazione di apparecchiarla anch’io in questo modo, tornare in hotel e chiudere sta benedetta valigia che mi porto in giro da quasi un mese, qui in Ucraina, mi viene per davvero.
Ma guardo sti due poveri cristi: Volodymir che ogni volta che può scende dal pullmino della Croce Rossa a giocare con il cane; sua moglie che non sa dove posare lo sguardo, spaesata. E non posso fare a meno di chiedermi che fine faranno; e che fine hanno fatto gli altri che hanno dovuto lasciare la loro casa, le loro cose, le loro vite prima di loro, negli ultimi due anni di guerra. E così decido di andare avanti. E per prima cosa, accompagno Elena e Volodymir anche nell’ultima tappa del loro viaggio, al centro di smistamento per i rifugiati di Kharkiv. Voglio capire il gorgo di guai in cui, lo sento, molti come loro devono essere sprofondati. O almeno provarci.
A ognuno la sua destinazione
In un paio d’ore arriviamo a destinazione. Dopo un po’ di carte, anche loro entrano a far parte ufficialmente di quelli che vengono chiamati rifugiati interni: gli ucraini, cioè, scappati dalla guerra, ma rimasti comunque a vivere all’interno del loro paese: quasi 5 milioni. E adesso? «Le persone si fermano magari per controlli medici e dormono qui o in un altro rifugio temporaneo per qualche notte. E poi vengono accompagnate alla loro destinazione finale», mi spiega Irina Smirnova, una dirigente di questo centro di smistamento. E quale sarebbe? «Dipende da loro. Potrebbero avere dei parenti a Kharkiv che li ospitano. O se hanno soldi potrebbero affittare un appartamento. Se non hanno né soldi, né parenti? Beh, il governo ha trasformato i dormitori dell’università di Kharkiv in alloggi. Andrebbero lì».
La vita in una stanza
E in questi dormitori, potrebbero rimanere, in teoria, anche all’infinito. E’ quello che è successo, per il momento, a Nikolai e Antonina Bilonko, un’altra coppia di pensionati, che incontro appunto in uno di questi campus trasformato in residence.
Nikolai e Antonina vivono lì, in una stanzetta, da un anno e mezzo. «Veniamo da un villaggio a Nord di Kharkiv, che si chiama Gatuche, a soli tre chilometri dal confine russo. A dicembre 2022 dei medici ucraini sono venuti da noi e ci hanno detto: qui sta per succedere qualcosa; se volete vivere, andate via. E così abbiamo fatto», mi spiega Nikolai. Sua moglie, nella cucina comune, sta preparando il classico boršč, la minestra di barbabietola, che è un po’ il piatto simbolo della cucina ucraina. Mentre versa gli ultimi ingredienti, si leva anche un grosso peso dallo stomaco: «All’inizio, ricevevamo molti aiuti umanitari, ora sempre meno. Le nostre pensioni sono bassissime e noi siamo costretti a comprare il cibo meno caro che c’è; anche roba scaduta quando riusciamo a trovarla».
Antonina mi fa strada lungo un corridoio lunghissimo, su cui si affacciano un’infinità di porte. Apre la sua: dentro saranno 20 metri quadri; con un armadio, due letti, una credenza e poco altro. Non c’è manco una televisione. «Ma tanto – mi dice – se vogliamo guardare un video, c’è il telefonino, no?». Con un po’ di orgoglio mi fa vedere l’unico pezzo pregiato di arredamento che si sono portati da casa: «Questa icona ce la passiamo in famiglia da generazioni».
Poi prende una foto con tre bambini, la bacia e la voce si spezza quasi in pianto: «Sono i miei nipoti, i figli dei miei figli. Sono scappati in Germania, meglio per loro». Gli chiedo se si sentono dimenticati: «Sì, ci sentiamo così. Ora l’aiuto che riceviamo è quasi zero. Colpa del governo? Certo, i soldi che riceviamo non sono abbastanza. Al villaggio avevamo orto e animali, ma qui dobbiamo comprare tutto».
Il sogno di tornare a casa
Saluto Nikolai e Antonina e scendo nel giardinetto di questo residence – un palazzone alveare, grigio cemento: stile unione sovietica – che ospita più di 350 persone. In un paio d’ore di viavai, mi passa davanti un piccolo esercito di rifugiati. Ci sono anziani, ma anche coppie giovani. E poi bambini, tanti, che da queste quattro mura non escono quasi mai, perché le scuole sono quasi tutte chiuse e le lezioni si fanno online: stanno in piccoli branchi nei corridoi, gli occhi incollati al telefonino o al tablet, ciascuno il suo. Tra gli adulti che intervisto, qualcuno lavora, qualcuno no. Tutti in qualche modo si arrabattano, però, perché devono comprarsi almeno da mangiare. Fare progetti e immaginare un qualche futuro – per loro, un po’ come per tutti qui in Ucraina – è difficile.
Prima di visitare questo dormitorio, avevo letto un report delle Nazioni Unite. Un anno fa, nel 2023, l’84% dei rifugiati interni sognava o pianificava di tornare nel proprio villaggio, nella propria città. Quest’anno la percentuale – con i Russi che hanno ripreso ad avanzare – è scesa al 72%. In realtà, parlando direttamente con loro, mi rendo conto che nessuno pensi seriamente di poter tornare a dormire nel proprio letto. Non ora. Forse mai.
«Dicono che le cose andranno per il meglio, ma non credo che casa mia verrà mai riparata. Tutti vorrebbero tornare, certo, ma io non credo che sarà possibile», mi dice Lubov («il cognome? Anch’io preferisco di no»), 53 anni, un tempo infermiera, ora disoccupata. E me lo dice con una rabbia che le leggo negli occhi e nella voce. E la capisco. Come reagirei io, se da un giorno all’altro mi ritrovassi senza tutto quello per cui ho lavorato e studiato una vita e senza che questo dipendesse da me? Rabbia, appunto, un fiume. E dolore.
E una dose di rassegnazione, forse, come quella che vedo dipinta sulla faccia di Larissa, anziana pensionata, che seduta su una panchina, le spalle curve, mi racconta la sua piccola odissea: «Vivevo nella provincia di Lugansk, lì la guerra c’è dal 2014. E così 5 anni fa ho comprato casa dalle parti di Kupiansk. Poi, nel 2022, è cominciato l’invasione russa. Ed ora – dice allargando le braccia – eccomi qua. Vivere in questo posto non è facile psicologicamente. Se potessi, se la guerra una buona volta finisse, io a casa mia ci tornerei anche a piedi. Doverla abbandonare è stato durissimo: devi ricominciare la tua vita da zero».
Ma c’è anche chi cerca comunque di guardare il bicchiere mezzo pieno e di cogliere le opportunità che, come sempre nella vita, ci sono. E’ il caso di Pargew Semenovy, 60 anni e due metri di bonomia ucraina. Pargew è un rifugiato e al dormitorio ha trovato non solo una stanza, ma anche un lavoro da guardiano. Mi stringe calorosamente la mano, quando ci presentiamo. E – e questo quasi mi sorprende – risponde alle mie domande con un sorriso: «Se abbiamo mai discussioni con i vicini? Sì, certo – dice -. Ma come in una grande famiglia. Vivo qui con mia moglie e mia figlia di 13 anni. Ci sono tanti servizi: c’è una palestra; una sala giochi per i bambini; per i ragazzi, poi, dei volontari organizzano anche delle escursioni. Insomma, è vero che i fornelli non sono abbastanza, le lavatrici nemmeno e c’è sempre coda. Ma va bene, potrebbe essere peggio. E comunque tornare a casa nostra, a Kupiansk, per il momento non è possibile: non c’era nemmeno la connessione internet, mia figlia non poteva studiare».
Ansia e sussidi
Oltre a realizzare questi alloggi, il governo ucraino ha messo a disposizione per questi rifugiati interni un po’ di aiuti – leggi: quattrini. Le regole, però, mi paiono un po’ complicate. Mi aiuta a capirci qualcosa una visita al centro per donne in difficoltà gestito da una organizzazione non governativa che si chiama “East SOS”. «Dall’inizio di marzo di quest’anno la legge è cambiata e molti sono rimasti senza sussidi. L’unica eccezione sono le famiglie con bambini», mi spiega Lyubov Kostenko, una assistente sociale che in questo centro aiuta appunto, tra le altre cose, persone a fare tutte le carte per ottenere lo status di rifugiato interno e quindi i soldi.
Ma quanto si prende, in ogni modo? Poco. Anzi proprio pochissimo anche per i prezzi ucraini che per noi sono roba da perenne stagione dei saldi. Qualche numero per capirci. Ogni adulto ha diritto a 2.000 grivnie, cioè manco 47 euro. E ogni bambino a 3000 grivnie, cioè 70 euro. Ma per un paio di birre e qualcosa da mangiare, a Kharkiv, di grivnie ce ne vogliono almeno 500. E una stanza di hotel, al giorno, ne costa 2.000. Insomma, quel sussidio mensile, è poco più di niente.
E così le preoccupazioni economiche si vanno ad aggiungere al peso della guerra e del trasloco forzato. «Se le persone che aiuto soffrono psicologicamente? Certo. Tutti quelli che vivono nella zona di Kharkiv sono messi così. Per quel che posso, cerco di aiutarli e, se è necessario, li segnalo alla nostra psicologa», mi risponde Lyubov indicandomi la sua collega, Daria Matunina, che è appunto la psicologa del centro.
Le famiglie, non solo quelle dei rifugiati interni, sono sotto pressione: «L’aumento dello stress – mi spiega Daria – pesa nel rapporto tra marito e moglie: ci sono più liti; ed è cresciuta la violenza domestica, in particolare nelle città vicino alla prima linea». E la tensione tra i genitori, mi spiega sempre Daria, si scarica sui figli che già hanno il loro fardello da sopportare: «I ragazzi soffrono d’ansia. Anche qui le ragioni sono tante. Gli manca il contatto con altri bambini: i vecchi amici sono magari all’estero; le lezioni si fanno solo online. E poi esplosioni e allarmi aerei fanno sì che avvertano il mondo come pericoloso. Non possono più neanche andare in un bosco, perché la maggior parte sono minati. E più ci si avvicina al fronte e peggio è».
Mentre ascolto mi viene in mene un altro report che avevo letto per preparare questo reportage. L’università di Southampton ha fatto uno studio ad hoc sulla guerra in Ucraina nella primavera del 2022: ha intervistato un pacco di rifugiati – 8.000 persone in totale – ed è giunto alle stesse conclusioni cui Daria è arrivata lavorando ogni giorno sul campo: poco meno del 68% dei rifugiati era stato esposto al rumore delle esplosioni e il 69% soffriva di problemi di ansia. Ad avere più problemi, sempre secondo questo studio, sono proprio i rifugiati rimasti in Ucraina perché sono ancora esposti ai traumi della guerra. E sempre loro, i rifugiati interni, poi, soffro di più anche di PTSD, cioè di sindrome da stress post traumatico, con incubi notturni e flashback, cioè momenti, da svegli, in cui anche involontariamente rivivono i traumi subiti.
Una vita in fuga
Prima di lasciare il centro di “East SOS”, mi fermo a scambiare due parole con una delle utenti. Si chiama Victoria Tischenko. Quarantasei anni, un lavoro all’università, mi racconta degli attacchi d’ansia del figlio, un bambino di soli 11 anni. «Le esplosioni lo terrorizzano. Soffre d’insonnia. Riesce ad appisolarsi solo in corridoio, perché non ci sono finestre e non ha paura che esplodano i vetri». Questo bambino non può andare a scuola; fa anche lui, come quasi tutti i suoi coetanei, solo lezioni online, per via del rischio bombardamenti. «E così non ha praticamente amici – mi dice sempre sua madre —. Molti dei vecchi compagni di classe sono scappati all’estero con le loro famiglie. Non riesce a farsene di nuovi. Domani – aggiunge – andiamo dal neurologo». Le chiedo se non abbia pensato di andarsene: «Stavamo in Germania – mi risponde -. Poi mia mamma è stata male e siamo dovuti rientrare. Ora sì, andrei anche via di nuovo; ma non saprei dove». La guardo negli occhi: stanchi, stanchissimi. Penso a Kharkiv sotto attacco; ai problemi che già ci sono, a quelli che con ogni probabilità verranno. Vorrei tanto dirle qualcosa. Ma non so cosa.
Di nuovo solo, mentre me ne vado finalmente in hotel a cercare di decidermi a chiudere quella benedetta valigia, un’ultima domanda, però, continua a rimbalzarmi in testa: ma noi – noi, come Europa; noi, come Italia; noi, come esseri umani – per Olga e Anatoli; per Elena e Volodymyr; per Nikolai e Antonina; per Lubov e Larissa; per Pargeow e la sua famiglia; e per Victoria e il suo bambino; noi davvero non possiamo fare niente di più?
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