Costume
Feltri sta alla milanesità come Giordano alla virile serietà
L’informazione è caratterizzata, per tanta parte, da provocatori di ogni sorta che, all’occorrenza, non disdegnano di apparire nella loro versione più insopportabilmente urticante, al fine di concentrare l’attenzione su sé stessi e il giornale o il programma presso cui prestano servizio. L’esempio più sintomatico di un sistema di comunicazione così concepito è rappresentato, senza dubbio, da un giornalista ormai degenerato a personaggio, come Vittorio Feltri, che proprio ieri, ha voluto esagerare nelle sue esternazioni velenose contro il Sud, spalleggiato egregiamente e da par suo, da un prontissimo e pallidissimo Mario Giordano, sempre più identificabile come l’indice più genuino della quintessenza del giornalismo curvo e senza sangue.
Due campioni del loro genere. Entrambi, fuoriclasse autentici, con un talento, coltivato e affinato nel tempo: l’uno, il direttore, facendosi interprete di una cultura popolare lombarda che sembra non appartenergli affatto, l’altro, il conduttore, assecondando semplicemente la sua vocazione di modesto cabarettista dell’informazione. Da una parte, dunque Feltri, titolare di un linguaggio brutale, strategicamente rissoso e pigramente provocatorio, tant’è che la ferocia con cui, spesso, titola le prime pagine della sua testata risulta essere comica, pur oltrepassando di gran lunga i limiti imposti dalla decenza; dall’altra un giullare imberbe, privo di qualsiasi linguaggio, che servendosi di una voce stridula, da castrato, comunica fieramente il nulla, il vuoto, l’assenza di qualsiasi opinione inerente alla critica, anche alla più elementare.
Sono modelli simili a fare dell’informazione un settore decisamente disarmante e non all’altezza delle esigenze dei consumatori di notizie. Sia ben chiaro, i nostri eroi hanno tutto il diritto di apparire in tv mostruosamente infelici, ma non per questo possono pretendere di continuare a offrire spettacoli tanto eccellenti, senza che nessuno ne tessa le lodi, come avviene, qui.
Per me, dunque, Feltri resta un caparbio pensatore alla ricerca continua della critica censoria, in quanto egli è pienamente consapevole che solamente questa possa consentire al suo pensiero, banalmente irritante, di essere preso in considerazione. Dire, scrivere, o fare qualcosa di abominevole che scalfisce la sensibilità e la coscienza degli altri provoca necessariamente il risentimento generale, che torna utile alla visibilità di chi si rende tanto spregevole. Con ogni probabilità, egli, pertanto, non è un critico, ma un ricercatore assiduo di una critica che gli piova addosso, purificandolo della sua impostura. Il piacere di essere criticato, in Feltri, supera in largo e in lungo il piacere di criticare, anche perché per esercitare la funzione occorre addurre ad argomenti, speculazioni dialettiche, virtuosismi letterari. Per ottemperare alla parte del “monstre provocateur”, invece, basta una semplice e naturale predisposizione alle schifezze di stile.
La verità è che in nome della “milanesità” e del “giornalismo” non si possono assumere atteggiamenti come quelli della coppia in argomento. A risultare danneggiato, in questo falso teatro, non riconducibile a nessuna forma di comunicazione, non è per niente il Sud, o Napoli e i napoletani, ma la tradizione e la cultura milanese, se mai Feltri ne fosse considerato un depositario. Manzoni ebbe a dire che “La milanesità è l’attitudine innata o acquisita di distinguere l’utile dall’inutile”. Ora, io domando, di grazia, quale utilità possono distinguersi nelle performances concitate di un giornalista in declino, fiancheggiato da un altro che si caratterizza superbamente per non eccellere in niente, se non in un perpetuo dimenarsi di qua e di là?
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