Diritti

Alaa Abd El Fattah sta morendo per denunciare il regime che ha ucciso Regeni

18 Luglio 2022

Da oltre cento giorni in Egitto c’è un uomo, allo stremo delle forze, che fa lo sciopero della fame. Si chiama Alaa Abd El Fattah, si batte per quei diritti fondamentali che in Italia diamo per scontati, ed è detenuto al Cairo, nel carcere di Wadi al Natrun, dov’è stato traferito dopo anni nella prigione di Tora (carcere tristemente famoso per i maltrattamenti a cui vengono sottoposti i detenuti e le spaventose condizioni igienico-sanitarie delle celle).

Alcune settimane fa un politico di centrosinistra abbastanza noto mi ha detto: «Non abbiamo dimenticato Regeni». Ma l’Italia non deve ricordarsi solo di Giulio Regeni. Perché la tragedia egiziana non riguarda solo il ricercatore italiano, ucciso in Egitto da uomini dei servizi segreti, seviziato “attraverso strumenti dotati di margine affilato e tagliente ed azioni con meccanismo urente, con cui gli cagionavano numerose lesioni traumatiche a livello della testa, del volto, del tratto cervico dorsale e degli arti inferiori; attraverso ripetuti urti ad opera di mezzi contundenti; attraverso ripetuti urti ad opera di mezzi contundenti (calci o pugni e l’uso di strumenti personali di offesa, quali bastoni, mazze)”.

La tragedia riguarda un intero popolo. Il popolo egiziano. Riguarda per esempio Patrick Zaki, lo studente iscritto all’Università di Bologna tuttora sottoposto alle decisioni assolutamente arbitrarie di un tribunale egiziano. O Ahmed Samir Santawy. O Alaa Abd El Fattah. O tanti altri egiziani che non conosciamo, e di cui nessun giornale o tg occidentale parla mai.

Tra gli epicentri della tragedia egiziana c’è proprio la prigione di Tora, dov’era detenuto Mohamed Morsi (l’ex presidente morto durante un’udienza del suo processo nel 2019), che raccontò alla famiglia di non avere un letto a disposizione, e di dover dormire sul pavimento. Paragonare quella prigione a un girone dantesco non è poi così iperbolico.

Alaa Abd El Fattah è riuscito a sopravvivere alla prigione di Tora, e ora rischia di spegnersi a Wadi al Natrun. Alla sorella Mona Seif dice di rinunciare all’idea che sia possibile salvarlo, e che possa uscire vivo di prigione. “Concentrati sul rendere il prezzo politico della mia morte il più alto possibile”, ecco cosa chiede alla Seif.

Insieme al resto della famiglia, la Seif sta facendo tutto il possibile per rispettare la volontà del fratello. È impegnata giorno e notte in una campagna che ha portato i media di tutto il mondo a scrivere dello sciopero della fame di Abd El Fattah, e per solidarietà con il fratello ha digiunato per venticinque giorni dopo l’ultima volta che ha potuto vederlo, il 12 giugno. “Non volete sapere come ci si sente quando non c’è niente di solido nello stomaco” ha scritto di recente su Facebook.

Abd El Fattah è un attivista per la democrazia, i diritti umani e la giustizia sociale. È diventato noto a livello internazionale durante le proteste della Primavera Araba, e se oggi rischia di morire, ad appena quarant’anni, la colpa è del regime tirannico e liberticida che domina l’Egitto dal colpo di stato del 2013, e legittimato da elezioni farsesche nel 2014. E da allora Abd El Fattah ha trascorso la maggior parte del tempo in galera.

Abd El Fattah è un prigioniero politico, come lo è più della metà di tutti i detenuti in Egitto, secondo l’Arabic Network for Human Rights Information (organizzazione egiziana che ha annunciato con rammarico la sospensione delle sue attività a gennaio, perché le vessazioni da parte delle autorità avevano raggiunto un livello ormai insostenibile).

Pure un ex candidato presidenziale, Abdel Moneim Abu El Fotouh, è un prigioniero politico. È in carcere dal febbraio 2018, arrestato dopo aver duramente criticato il presidente Al Sisi in piena campagna elettorale: un mese dopo Al Sisi veniva rieletto con un incredibile – letteralmente – 97% dei voti. Due mesi fa El Fotouh è stato condannato a quindici anni di carcere, in uno dei molti processi che le organizzazioni per i diritti umani definiscono ingiusti o privi di basi legali.

“Diffondere notizie false” o “complottare per rovesciare lo Stato”. Accuse terribili come queste possono essere mosse contro chiunque in Egitto, anche per la minima espressione di dissidenza o critica verso il regime, il “sistema”, e naturalmente i vertici politici. E una volta che si è accusati di questo tipo di reato, il proprio destino è segnato (carcere, condizioni inumane, maltrattamenti, processi e sentenze inique) e subordinato alle decisioni del tutto arbitrarie di un regime tra i peggiori dell’intero bacino del Mediterraneo.

Abu El Fotouh ha più di settant’anni e da tempo è cardiopatico. Secondo la sua famiglia, due settimane fa ha avuto due crisi, probabilmente a causa delle temperature della cella, che lui stesso ha definito “un bollitore” (le condizioni già terribili dei detenuti non possono che peggiorare durante le ondate di calore anomalo a cui anche l’Egitto è sottoposto: già a giugno si sono toccati i 41° al Cairo). Chi ha incontrato prima dell’arresto Abu El Fotouh lo ricorda come un uomo dalla stazza imponente ed energico, e fatica a riconoscerlo nelle foto che il figlio condivide su Facebook.

I familiari di Abu El Fotouh sono in pena per lui, temono che morirà in carcere. Lo stesso vale per i familiari di Abd El Fattah, di Ahmed Samir Santawy, e di innumerevoli altri, incarcerati ingiustamente. Per ogni detenuto politico in Egitto c’è un’intera famiglia che vive nel dolore, un racconto dell’orrore sapientemente utilizzato per alimentare il clima di terrore che regna ormai nel paese nordafricano.

Che effetti può avere su una società, ad esempio, una storia atroce come quella di Sarah Hegazi? Attivista per i diritti della comunità LGBT, venne arrestata nel 2017 e portata in carcere, dove fu detenuta per tre mesi e subì violenze atroci. Una volta scarcerata il Canada le offrì asilo e così si rifugiò a Toronto, dov’era al sicuro ma lontanissima dalla sua famiglia. Hegazi si suicidò nel giugno di due anni fa. Nella sua lettera di addio scrisse: “Ai miei fratelli: ho provato a sopravvivere e non ce l’ho fatta, perdonatemi. Ai miei amici: l’esperienza è stata dura e io sono troppo debole, perdonatemi. Al mondo: sei stato estremamente crudele, ma ti perdono”. La colpa di Sarah Hegazi? Essere lesbica e aver sventolato la bandiera arcobaleno durante un concerto al Cairo.

Ma per quanto siano terribili le loro storie, i prigionieri politici non sono gli unici a soffrire in Egitto. Ci sono anche i milioni di egiziani ed egiziane che vivono in povertà o persino sotto la soglia della povertà, privati di ogni reale possibilità di una vita dignitosa e appagante, e dei diritti umani e civili anche più basilari. Ci sono le centinaia di migliaia di cittadini e cittadine (ovviamente non esistono cifre ufficiali a riguardo) sbattuti fuori dalle loro case, senza alcuna rete di protezione, per fare largo ai progetti di “sviluppo” urbano del regime, tanto assurdi quanto, spesso, completamente sprezzanti verso la storia e la cultura del paese.

L’ultimo esempio è la decisione di distruggere le celebri awama, le case galleggianti sul Nilo che rappresentavano un capitolo importante della storia della capitale, oltre che un panorama prezioso per i cittadini del Cairo e i suoi visitatori. I proprietari di quelle case galleggianti (a volte anche molto anziani) sono stati costretti a lasciarle, ovviamente senza ricevere alcun indennizzo degno di questo nome.

Il regime sta trasformando l’Egitto in un autentico inferno per la maggior parte dei suoi 100 milioni di abitanti, e gode di un’impunità inaccettabile per una nazione che condivide lo spazio mediterraneo con l’Unione Europea. Della quale, tra l’altro, è partner a più livelli. L’Egitto fa ancora parte dell’Unione per il Mediterraneo, tanto per dire, ed è legato a Bruxelles dall’Accordo di Associazione UE-Egitto, in vigore dal 2004: un accordo che crea un’area di libero scambio tra l’UE e l’Egitto, eliminando le tariffe sui prodotti industriali e facilitando il commercio dei prodotti agricoli. Non sorprende quindi che, due mesi fa, varie organizzazioni per i diritti umani abbiano  chiesto a Bruxelles di vincolare i progressi nelle relazioni bilaterali con Il Cairo a standard specifici per migliorare la situazione dei diritti umani nel Paese.

E il governo italiano (che giustamente è sempre più attivo nell’area mediterranea) farebbe bene a mettere l’Egitto nella sua lista delle priorità. Quello egiziano è un “regime canaglia” che vessa e affama decine di milioni di persone, ad appena mille chilometri dall’Italia, e ha già dimostrato ampiamente la sua totale mancanza di rispetto verso la nostra nazione, nonostante le relazioni storiche, culturali ed economiche che legano l’Egitto all’Italia. Da analista geopolitico, ma soprattutto da cristiano, italiano e socialdemocratico, trovo tutto ciò inaccettabile.

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