Diritti
Sui diritti l’Italia è sempre più sola
Ieri l’Estonia è diventata il quindicesimo paese dell’Unione Europea ad approvare il matrimonio per le coppie dello stesso sesso, secondo, dopo la Slovenia, tra i membri che stavano dall’altro lato della cortina di ferro. Nelle stesse ore, da Padova arrivava la notizia dell’impugnazione di 33 atti di nascita che, al 2017 ad oggi, puntavano al riconoscimento dei diritti ai figli delle coppie omogenitoriali. Qualora ve lo foste dimenticati, quando si parla di diritti delle persone e delle famiglie LGBTQ+, il nostro Paese è in terza categoria, insieme con Ungheria, Bulgaria, Romania, Polonia. Eppure, c’era una volta un’Italia che, nonostante il Vaticano, i vescovi e la Democrazia Cristiana al 35%, riusciva a stare al passo con le battaglie sui diritti. Con la Seconda Repubblica qualcosa è cambiato.
Gli Anni Settanta: divorzio e aborto come nel resto d’Europa
Risale al 1970 l’introduzione nell’ordinamento italiano del divorzio con la ‘Legge Fortuna-Baslini’. Fu un voto trasversale che univa pezzi di maggioranza (socialisti, socialdemocratici, repubblicani) e opposizione (comunisti, liberali), mentre la Democrazia Cristiana, che si opponeva al progetto di legge, rimase sola coi monarchici e coi neofascisti del Movimento Sociale (MSI). Il referendum abrogativo promosso da democristiani e missini qualche anno più tardi si trasformò in un plebiscito a favore del divorzio, che nessuno ha più messo in discussione. L’introduzione del divorzio arrivava in ritardo rispetto alla Francia (1884) e alla maggior parte dei paesi europei che avevano vissuto la riforma protestante, ma anticipava tutti gli altri paesi a forte tradizione cattolica: Portogallo (1975), Spagna (1981), Irlanda (1995) e Malta (2011).
La legislazione sull’aborto in Italia arrivò pochi anni dopo, in linea col resto d’Europa. La Legge 194 è del 1978: Francia e in Germania Occidentale avevano legalizzato l’interruzione volontaria di gravidanza solo tre anni prima, mentre più tardi arriveranno Paesi Bassi e Portogallo (1984), Spagna (1985), Grecia (1986) e Belgio (1990). Come sul divorzio, anche sull’aborto si consolidò una maggioranza trasversale di comunisti, socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali, mentre democristiani e missini erano contrari. E come in occasione del referendum abrogativo del divorzio, anche il successivo referendum abrogativo produsse una schiacciante maggioranza (68%) a favore della legge sull’aborto.
Il ritardo trentennale sui diritti delle persone LGBTIQ+
Il cammino dei diritti si è fermato alla fine della Prima Repubblica, proprio mentre tutti gli altri paesi europei hanno premuto sul’acceleratore. Ci sono voluti trent’anni di proposte (la prima fu depositata dalle parlamentari Salvato, Bianchi e Bottari nel 1986) e una crisi di governo (Governo Prodi II, costretto a ritirare il disegno di legge istitutivo dei “DICO – DIritti e doveri delle persone stabilmente Conviventi” per superare un voto di fiducia al Senato sulla politica estera) per arrivare ad una legge che riconoscesse le unioni civili di coppie dello stesso sesso. È solo nel 2016, quando ormai mezza Europa aveva già legalizzato il matrimonio per le coppie dello stesso sesso, che il Governo Renzi riusciva, tra le polemiche, a far approvare le unioni civili. Un passo importante, ma fuori tempo massimo: mentre in Italia ci si scannava sulle unioni civili, il matrimonio era già realtà in nove Paesi UE: Paesi Bassi (2001), Belgio (2003), Spagna (2005), Svezia (2009), Portogallo (2010), Danimarca (2012), Francia (2013), Irlanda e Lussemburgo (2015). Germania, Finlandia e la cattolicissima Malta avrebbero seguito l’anno successivo, l’Austria nel 2019 e la Slovenia nel 2022.
Penultimo Paese in Europa occidentale a riconoscere le unioni tra le coppie omosessuali e unico, insieme alla Grecia, a non riconoscere il matrimonio, oggi l’Italia occupa le posizioni più basse delle classifiche che misurano i livelli di eguaglianza e di rispetto dei diritti delle persone LGBTIQ+: su 49 paesi osservati da Rainbow Europe nell’annuale classifica, l’Italia si piazza 34’.
‘Meglio fascista che frocio’
Dal ‘meglio fascista che frocio’ urlato in diretta TV da Alessandra Mussolini fino all’incredibile crociata contro il riconoscimento dei figli delle coppie omosessuali, la destra ha fatto dello scontro con la comunità LGBTIQ+ un elemento della sua propaganda identitaria. Non ci si oppone ai diritti delle persone e delle famiglie omosessuali per convinzione ma per calcolo: demonizzando la comunità LGBTIQ+, cosi come l’immigrato e “il clandestino”, si alimenta la paura del diverso che, elettoralmente, paga bene. Ce lo ricorda la stessa Mussolini che, abbandonati gli abiti della donna della destra dura e pura, s’è trasformata in una fatina arcobaleno. A dire il vero, però, oggi nemmeno la sinistra mette il tema dei diritti in cima alle sue priorità. Lo dimostra anche l’epilogo dell’iter della ‘Legge Zan’, una proposta di legge che avrebbe inasprito le pene per chi commette atti di discriminazione fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere o sulla disabilità. Pur avendo una maggioranza che, sulla carta, avrebbe potuto approvare la legge, la ‘ragion di stato’, ovvero la sopravvivenza del Governo Draghi, ha prevalso.
E così l’Italia di oggi, più secolarizzata e più profana dell’Italia che cinquant’anni fa approvava divorzio e aborto, resta ferma, sola con autocrati e fanatici, mentre il resto del mondo va avanti. A chi giova?
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