Diritti
Di Genova, della mattanza dei “cani sciolti” e del nostro rancore
Avevo deciso di non andarci, a Genova. Nel marzo precedente avevo interrotto cinque anni di intensa militanza all’interno di un movimento che avevo amato, in cui avevo sperato; e che poi, invece, avevo improvvisamente percepito come inadeguato, logorante e ormai privo di sbocchi. Non capivo ancora quanto mi stessi drasticamente separando da un ambiente che avevo sentito appartenermi in modo totale, dunque non fu quello il motivo per cui mi tenni fuori dall’organizzazione di quelle giornate. Nonostante avessi soltanto 22 anni, sentivo invece l’insopportabile puzza di un trappolone in agguato, una puzza che nei giorni immediatamente successivi si sarebbe poi trasformata in un autentico tanfo, un tanfo alimentato non tanto dalle forze dell’ordine quanto da alcuni sinistri personaggi vicino al governo. Mi preoccupavano inoltre alcuni gruppuscoli che si muovevano in un modo un po’ ambiguo, e mi preoccupavano le due o tre bombette che erano scoppiate nei giorni precedenti in alcuni punti sensibili, e che una piccola eco l’avevano trovata pure in minuscoli frammenti di quel composito mondo che si apprestava a riversarsi su Genova. Quel clima non mi piaceva per niente. Avevo passato parecchi mesi ripetendo che a Genova non ci avrei mai messo piede. Poi, però, ci fu la morte di Carlo Giuliani. Così, saltai sulla prima macchina in partenza da Milano, e a Genova trovai centinaia di migliaia di persone che sembravano più entusiaste di me, più felici di me, ma felice lo divenni ben presto anche io. Il corteo del sabato fu un’esplosione di luci e colori. Il famoso blocco nero di cui tanto avevo sentito parlare mi apparve subito, in realtà, molto più disciplinato e sotto controllo di quanto non avessi potuto pensare, e di quanto avessi sentito raccontare in quei giorni. Nello stesso tempo, però, pensavo che conciati in quel modo, in quel contesto, sarebbe a un certo punto risultato impossibile capire chi si aveva di fianco. A ogni modo, mi trovavo nel mezzo di un corteo mozzafiato, dicevo; bellissimo, colorato e passo dopo passo accompagnato – in quel suo oceanico movimento – da una popolazione genovese solidale e umanamente vicina, che dalle finestre porgeva fiori, acqua fresca e saluti. Ero emozionato e guardavo. Fu sul lungomare che il vero blocco nero di quell’infame giornata si scaraventò con tutte le sue forze addosso al corteo. Come gruppone gigante dei cani sciolti fummo caricati ripetutamente da almeno due direzioni diverse. Fummo spazzati via al terzo o al quarto tentativo, forse anche prima. Mentre mi arrampicavo sulla collinetta sulla sinistra, che per me e pochi altri avrebbe significato salvezza – accolti nel giardino di casa di una signora davvero per bene – feci in tempo ad accorgermi delle persone che due passi più in giù venivano molestate dai manganelli della polizia; coppie di uomini e donne, dell’età dei miei genitori, che venivano ripetutamente colpite dietro la nuca – o subito sopra i gomiti – dai manganelli tenuti al contrario. Nello stesso tempo, però, vidi come le strutture organizzate stessero almeno rinculando in modo compatto, e capii che la grande mattanza avrebbe a quel punto riguardato soprattutto quanti, come il sottoscritto, erano arrivati a Genova da soli, o in piccoli gruppi. Uscii dal giardino di quella casa soltanto molte ore più tardi. Il telefono prendeva poco o per niente, ma ero comunque riuscito a rassicurare amici e parenti. Venire via da Genova fu difficile, e poi un grande sollievo. Cercavo disperatamente di avere notizie di tutti gli amici. Giurai a me stesso che non ci avrei messo piede mai più, in quella pur bella città. I giorni successivi mi curai, come fecero anche moltissimi altri. Per fortuna ero tornato a casa senza aver rimediato nemmeno un piccolo graffio, ma la ferita più grossa stava dentro di me. Stava dentro di noi. Le imponenti manifestazioni di protesta dei giorni successivi si trasformarono nel vaccino migliore. Vedemmo urlare – per strada, a Milano – molte di quelle persone che in piazza non si erano più viste da anni, e poi i nostri professori, i genitori nostri e dei nostri amici, i partiti della sinistra in modo compatto. La rabbia che tutti seppero urlare ci fece sentire assistiti, addirittura felici. La parte migliore del paese ci restituiva la dignità che qualcuno, alla Diaz o nella testa dei torturatori, avrebbe voluto rubarci. Leggere il Manifesto ci dava conforto. Guardare Rai3 ci dava conforto. Eravamo convinti che i violentatori di Genova avrebbero finalmente pagato, come noi avevamo sempre pagato, e duramente, per ogni singolo errore, infinitamente minore. Sono passati quindici anni, e no, non siamo contenti di come è finita. Oggi siamo arrabbiati, perché capiamo che la tortura è ancora un’opzione. Non siamo più un movimento, eppure siamo ancora qui, col nostro equilibrio precario: siamo educatori, siamo ricercatori, siamo scrittori; siamo avvocati, siamo giornalisti, oppure siamo editori. È vero, qualcuno si è anche perso per strada. Lavoriamo, non lavoriamo e insomma siamo pure diversi. Sappiamo però riconoscerci come figli di un’unica madre. Sappiamo riconoscerci come complici e amici, in questa nostra continua ricerca di una perduta giustizia, di una giustizia diversa che meritiamo e aspettiamo.
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