Diritti
Detenuti stranieri: figli di un Dio minore
Due cittadini di origine albanese ristretti nel Carcere di Brindisi, a cui sono stati negati alcuni diritti fondamentali del detenuto, ottengono l’annullamento con rinvio del mandato di arresto europeo di cui erano destinatari, grazie al ricorso per Cassazione dell’avvocato Raffaele Missere. Perché la questione delle carceri e dei diritti degli uomini che le abitano, potrebbe riguardare tutti noi prima o poi
La Suprema Corte di Cassazione lo scorso 9 e 14 febbraio, ha annullato con rinvio due sentenze della Corte di Appello di Lecce nei confronti di due cittadini di origine albanese, destinatari di MAE (mandato di arresto europeo) emessi dall’autorità giudiziaria greca, che chiedeva la consegna dei due soggetti ristretti nel carcere di Brindisi (arrestati all’incirca due mesi addietro dalla polizia di frontiera in servizio presso il porto del capoluogo di provincia pugliese).
Di fondamentale importanza sono risultati i ricorsi per Cassazione presentati dal difensore di fiducia dei due stranieri, l’avvocato penalista Raffaele Missere (del foro di Brindisi), il quale ha addotto motivazioni assai robuste sotto il profilo squisitamente giurisprudenziale e che, inevitabilmente, muovono questioni di diritto internazionale, umanitario e di coscienza civile.
La prima delle due vicende, vede protagonista un uomo di cittadinanza albanese, arrestato presso il porto di Brindisi, perché accusato dalla Procura della Repubblica di Kalamata, in Grecia, di “associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti”. Reato che il codice penale ellenico, punisce con il fine pena mai (ergastolo) e senza alcuna differenziazione o discrimine per quel capo di imputazione. In ossequio al mandato di arresto europeo, si chiedeva l’estradizione del detenuto in Grecia. Estradizione che la VI Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto di dover negare, annullando con rinvio la sentenza della Corte di Appello di Lecce, che ne disponeva la consegna, di fatto accogliendo il ricorso presentato dal cittadino albanese per il tramite del suo avvocato Raffaele Missere. Le violazioni eccepite nel ricorso riguardanti la sentenza di merito impugnata, che hanno incontrato il parere favorevole della Cassazione, sostanzialmente si riferiscono alla mancanza di accertamenti sulle condizioni delle carceri in Grecia, circa l’osservanza di alcuni requisiti fondamentali stabiliti da convenzioni internazionali sui diritti dei detenuti. Non essendo stato possibile valutare l’esistenza di un trattamento paritario tra pena, rieducazione e detenzione in carcere univocamente riconosciuta tra i vari Paesi, il massimo organo giurisdizionale italiano, ha ritenuto di dover annullare la sentenza di secondo grado della Corte d’Appello di Lecce, rinviando ad altra sezione la rivalutazione delle questioni di merito. I Giudici di Cassazione hanno stabilito di dover applicare i principi in vigore nel nostro Paese (luogo dove è avvenuta la cattura), garantendo al reo il rispetto dei diritti riconosciutigli dalle leggi italiane.
La seconda delle storie in oggetto, vede un altro uomo di origine albanese, tratto sempre in arresto al porto di Brindisi dalla polizia di frontiera, destinatario di un altro mandato di arresto europeo emesso dalla Procura della Repubblica di Larissa (Grecia) oltre 13 anni addietro, precisamente nel febbraio 2010, con l’accusa di tentato omicidio. L’arresto del malcapitato, ristretto nella Casa Circondariale di Brindisi, avvenuto negli ultimi giorni del mese di dicembre 2022, ha del paradossale.
Dello stesso paradosso ha dato opportuno riscontro nuovamente la VI Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, quando, nella giornata del 14 febbraio, ha annullato con rinvio ad altra sezione di Corte d’Appello di Lecce, la sentenza di arresto dello stesso albanese, contenente diverse e delicate violazioni di legge.
Anche in questo caso, è stato provvidente il Ricorso per Cassazione e le correlate memorie difensive depositate con cui, l’avvocato Raffaele Missere, difensore dello straniero, ha sollevato le eccezioni che arrecavano pregiudizio grave ed ingiusto al soggetto detenuto nelle nostre carceri, pur non essendo né domiciliato, né residente sul nostro territorio nazionale.
In sintesi: al cittadino extracomunitario non sono mai stati tradotti gli atti posti in essere nell’unica lingua parlata e compresa dal soggetto stesso. Di qui, l’eccezione sollevata dalla difesa tecnica, di nullità della sentenza per mancata traduzione degli atti in lingua albanese; ancora, nullità per mancata applicazione della legge. La sentenza della Corte di Appello di Lecce, con cui si autorizzava l’estradizione del soggetto in Grecia, violava palesemente norme di diritto italiano e di alcune tra le più importanti Convenzioni internazionali, trovandosi di fronte, ad un caso di “NE BIS IN IDEM”. Avendo, di fatto, l’albanese in questione, già scontato interamente la pena alla quale era stato condannato per i reati a lui ascritti.
Era compito del tribunale di merito leccese, infatti, rigettare la richiesta greca di consegnare il cittadino albanese, non potendo essere “giudicato e perseguito” due volte per gli stessi fatti. Di istituzione romana, risalente all’epoca delle legis actiones, e tramandate poi dalle “Institutiones” del giurista Gaio anche nel II secolo dopo Cristo, l’evoluzione del concetto del “NE BIS IN IDEM” in ambito europeo, è assunto dall’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali Ue di Nizza, nonché dall’articolo 54 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen e dall’articolo 4 del Protocollo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Lo stesso Codice di procedura penale italiano, precisamente all’ articolo 649, prevede che “l’imputato prosciolto o condannato, con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili, non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze”.
Ad ogni modo, appare assai inquietante, come un principio di accettazione convenzionale, utilizzato come garanzia di porre fine ad una persecuzione da parte dello Stato, venga bistrattato e strumentalizzato per creare contrasti sempre più aspri e logoranti tra verità storiche e verità processuali, rendendo paludosa e censurabile l’applicazione ad litteram del diritto.
E, da ultimo, ma di non trascurabile rilevanza, la Corte territoriale, ha omesso, pur essendovi tenuta, di accertare le condizioni di detenzione carceraria in Grecia, essendo lo Stato ellenico, destinatario di molteplici richiami in relazione al trattamento disumano a cui vengono sottoposti i ristretti nelle carceri. L’ultima denuncia a riguardo, risale al settembre del 2022, a firma del Consiglio d’Europa, che ha accertato tramite ispezione di apposito Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, situazioni e carenze di servizi sanitari, di personale e violenza tra i detenuti. Inoltre, la stessa Corte EDU, ha diverse volte, evidenziato, come non verrebbero rispettati dalla Grecia, nemmeno alcuni requisiti inerenti alla metratura delle celle.
Per concludere, abbiamo assistito a violazioni così rilevanti per la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, in questo caso di due cittadini di origine straniera, a cui, con inspiegabile superficialità, si rischiava di far proseguire una “persecuzione” giudiziaria dopo aver già pagato i suoi debiti interamente l’uno, privandolo di qualsivoglia garanzia di difesa paritaria, come la traduzione nella propria lingua di origine e ,di estradare l’altro, consegnandolo ad una probabilissima condanna all’ergastolo assolutamente sommaria e per nulla circostanziata per un reato generico che contiene una infinità di annessioni e connessioni nel suo perpetrarsi. La cosa avrebbe rappresentato una pagina davvero oscura della nostra storia giudiziaria.
L’avvocato Raffaele Missere, semplicemente, onorando la toga che indossa quotidianamente, ha ritenuto doveroso ed ineludibile, battersi strenuamente perché i diritti dei suoi assistiti (in questo caso di origine straniera e forse, per questo, colpevoli di essere considerati figli di un Dio minore), ma anche e soprattutto a rappresentanza di tutti gli essere umani, non venissero calpestati in modo indecoroso, proprio da chi dovrebbe agire secondo giustizia, che non può slegarsi da un assunto inconfutabile: cioè che esiste sempre e comunque il corso degli eventi, imponderabilmente appartenenti alla condizione umana, secondo cui, tutti prima o poi, potremmo ritrovarci nei panni di detenuti di origine straniera, a cui viene negata ogni difesa prevista dal diritto umanitario, internazionale e, soprattutto, dalla coscienza civile.
Come possono non venire alla mente i versi emozionanti di un altro penalista, Paolo Camassa, sulla responsabilità di vestire la toga:
“ La toga, è nera come un’ombra che ricopre un’anima, è nera come un manto di dolori e di piaghe, è nera come la notte che nasconde gli smarrimenti. Basta indossarla, per raccogliere il peso di tutti i dolenti, di tutti i colpevoli, di tutti i derelitti. È un manto che va portato come corona di spine”.
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