Diritti
Dalla parte delle bambine: il femminismo educante
La giornata mondiale delle bambine e delle ragazze sta volgendo al termine e – con buona probabilità – fino al prossimo anno torneremo ad essere in pochi a preoccuparci della disparità di genere e del fatto che sia necessario un percorso di nuovo femminismo, che personalmente definirei femminismo educante, per cercare di sanare, fin dai primi anni di vita, questo divario.
Questo perché comunemente si pensa che il problema sia “altrove”: nelle immagini delle spose bambine, nel crudele rito dell’infibulazione, nelle ragazze costrette ad abbandonare gli studi per motivi religiosi, nelle bambine abbandonate negli istituti perché “colpevoli” di essere nate femmine, nelle prostitute minorenni comprate nei loro paesi d’origine che ogni notte vengono costrette a battere le strade delle nostre città. Raramente ci rendiamo conto che la parità fra i sessi, anche in Italia, è solo apparente e che la bilancia, in un metaforico calcolo delle discriminazioni, pende sempre dalla parte delle donne. Disparità salariale, di carriera, nel carico di cura, ma anche discriminazione in ambito sanitario e sociale sono ancora oggi all’ordine del giorno nonostante gli sforzi legislativi. Questo perché il problema affonda le sue radici in ambito culturale ancor prima che burocratico.
Nasciamo diversi e la diversità, da valore, diventa limite con l’accentuazione, dai primi anni, dei confini fra lo spazio maschile e femminile, attraverso l’educazione, la comunicazione, il contesto sociale in cui viviamo: dai giocattoli ai libri, dai vestiti alle pubblicità, passando per le abitudini linguistiche irriflesse (quante volte sentiamo la frase “non devi piangere come una femminuccia” rivolta a un bambino o “non agitarti così, non sei un maschiaccio” rivolta a una bambina?) i limiti si fissano in modo estremamente “naturale”. Pochi si accorgono del processo perché – in fondo – è sempre stato così ed è normale regalare a una bambina una bambola e a un bambino le costruzioni. Pochi decifrano il nesso fra un regalo ricevuto alla scuola materna e la tendenza a compiere certe scelte in ambito professionale e personale, pochi si accorgono che non è “naturale” la tendenza di una bambina nei confronti di un certo tipo di abbigliamento o di gioco, ma che si costruisce attraverso l’emulazione (questo sì un apprendimento naturale), ma soprattutto attraverso l’influenza del mondo della comunicazione in senso lato. I bambini imparano a parlare e con il linguaggio si trasmette un sostrato culturale che, come piccole spugne, assorbono. Le “cose da femmine” e “cose da maschi” si stabiliscono dunque ben prima del debutto in società dei più piccoli, con l’arrivo a scuola. E se il mondo dei media – dalla pubblicità ai programmi per i più piccoli – fa la parte del leone in questo processo, non minor peso hanno le già citate abitudini irriflesse. Crescendo il problema non si risolve, ma si acuisce.
Fa parte del nostro patrimonio culturale acquisito pensare che esistano professioni da uomo e da donna, sport maschili e femminili, passioni, generi musicali, letterari e cinematografici per l’uno e l’altro sesso. Esistono le eccezioni, ma sono – appunto – tali e spesso portano a più o meno velate discriminazioni. La bambina che decide di giocare a rugby e il bambino con la passione per la danza classica possono essere un buon esempio, ma è esperienza comune notare una certa preoccupazione nei genitori se il loro figlio maschio è troppo calmo e si dedica ad attività come la fabbricazione di collanine o se la loro figlia femmina fa la lotta con i compagni tornando a casa con i vestiti imbrattati. La preoccupazione però sembra “innocua” e legata esclusivamente ad un atteggiamento di carattere privato. Tuttavia l’idea che alcune cose siano “adatte” a un sesso piuttosto che a un altro si fissa nell’inconscio proprio in questa fase della vita e, per quanto magari in modo non premeditato, offre degli input specifici ai bambini/ragazzi che si rifletteranno anche sulle loro scelte future. Osservare un ménage familiare nel quale la madre lavora e si deve fare anche carico di tutte le pratiche di cura domestica influenzerà tanto la mentalità di un bambino quanto quella di una bambina: entrambi si costruiranno delle aspettative, che certamente potranno “smontare” con un processo razionale durante la maturazione, ma che potrebbero tranquillamente essere definite diversamente all’origine.
Cosa c’entra tutto questo con la discriminazione delle donne e la necessità di tenere vivo, al di fuori della sola giornata di oggi, il dibattito sul femminismo educante? Alcuni dati possono esserci d’aiuto.
In Italia le donne guadagnano in media 1,8 euro in meno l’ora rispetto ai colleghi uomini con pari mansione e se la forbice in busta paga è del 40% a fine carriera, il problema si genera fin dalle prime assunzioni, quando il divario di partenza è dell’11%. L’indipendenza, si sa, passa in primis dall’indipendenza economica. Nessuno è davvero libero di scegliere se manca della possibilità di provvedere a sé stesso o se si trova in una condizione economica svantaggiata. E così vediamo che fra le tante vittime di violenze domestiche (in Italia nel 2016 sono state 120 le donne uccise fra le mura di casa) che non denunciano i loro persecutori, molte lo fanno non solo per un problema di carattere culturale (troppo spesso si definisce la violenza “passionale” o di “gelosia”, come se l’amore avesse un qualsivoglia nesso con la brutalità, portando molte donne a credere che si tratti di un modo per segnare un legame), o per ragioni legate alla presenza di pressioni famigliari, ma anche perché diversamente non saprebbero dove andare e come sopravvivere. Arrivando così in alcuni casi a morire per mancanza di alternative.
Le alternative ci sarebbero, nei centri anti violenza, che spesso però non hanno mezzi sufficienti per far fronte al carico di lavoro richiesto. Suona come una storia già sentita? Forse perché lo stesso problema in Italia si presenta per i consultori: pochi (nella sola Lombardia mancano, per essere a norma di legge, ben 314 strutture), sotto finanziati e spesso costretti a barcamenarsi fra medici e infermieri obiettori di coscienza e associazioni pro vita. Il diritto alla prevenzione, alla contraccezione (altra forma di libertà di scelta per la donna e, quindi, d’indipendenza), all’aborto o all’assistenza dopo il parto anche in casi di difficoltà economiche o sociali è troppo spesso esercitabile solo sulla carta. A norma di legge esiste, alla prova dei fatti no. E così molte giovanissime non ricevono una corretta educazione sessuale, non hanno la possibilità – anche in questo caso, ancora una volta, economica – di far fronte alle spese (alte) per la contraccezione, non hanno modo di parlare di eventuali problemi di carattere relazionale. A scuola le cose non vanno meglio: l’educazione sessuale non fa parte dei programmi curricolari (in questo l’Italia fa “compagnia” a soli altri 5 stati europei: Bulgaria, Cipro, Lituania, Romania e Polonia) e ai ragazzi non vengono proposti percorsi educativi sul rispetto delle differenze e attività formative che insegnino la gestione dei sentimenti, anche quelli negativi come la gelosia e il senso del possesso. Parallelamente giornali e televisioni “insegnano” che una ragazza stuprata perché vestita in modo troppo succinto ha, a suo modo, fornito una motivazione al suo carnefice e che la violenza verso una ex fidanzata, una moglie, la propria amante è “giustificata” se avvenuta sotto la spinta della passione. Non stupisce quindi che in un contesto di questo tipo esista un “sommerso” di fatti non denunciati e che – solo a causa di una grande superficialità di approccio – vengono considerati minori, forse perché non comportano lesioni fisiche o la morte della vittima. Il mobbing nei confronti delle neo-mamme al rientro al lavoro, lo stalking (troppo spesso confuso con un corteggiamento insistente), la violenza verbale, i giochi (che di gioco non hanno nulla) come il fat girl rodeo o il pull a pig basati sull’umiliazione femminile. E ancora il body shaming, il cat calling sulle nostre strade (o manomorta sui mezzi pubblici), i revenge video diffusi sul web.
A fronte di questi dati appare chiaro che la parità è ben lontana da essere una realtà in Italia, quindi che fare? Certamente le giornate di sensibilizzazione rivestono grande importanza sull’opinione pubblica, ma si tratta di un intervento su un “pubblico” adulto. Il vero cambiamento passa invece, di necessità, da nuove generazioni portatrici, sane, di nuove opportunità. Occorre quindi intervenire sulle famiglie e chi opera nelle agenzie educative (scuola, sport, mondo dell’associazionismo) con percorsi di formazione che aiutino a liberarsi dagli stereotipi di genere, anche quelli involontari. Occorre che gli enti si facciano carico di strutturare progetti concreti per l’educazione alle differenze, all’affettività, al rispetto fin dai primi anni di vita. Occorrono, più di ogni altra cosa, modelli concreti e testimonianze quotidiane di parità praticata.
Infine occorrono interventi sul lavoro, dall’occupazione alla conciliazione,e sui servizi alla persona. Occorre – in sintesi – dare la possibilità alle donne di avere, come diceva Virginia Woolf, “una stanza tutta per sè” e soprattutto il tempo e i mezzi per poterla abitare.
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