Diritti

Contro il terrorismo il fascismo è inutile (anzi, controproducente)

25 Luglio 2016

Di recente il ministro degli interni tedesco, Thomas de Maizière (di chiara origine ugonotta, come si evince dal nome), ha dichiarato in un’intervista al settimanale Spiegel che «nessuno Stato costituzionale nel mondo è in grado di prevedere ogni crimine». Il ministro ha ragione, ma ha dimenticato un piccolo particolare: nemmeno gli stati autoritari o fascisti ci riescono, specialmente quando si tratta di atti terroristici.

Quindi cercare di contrastare l’odioso (e pericolosissimo) fenomeno del terrorismo islamista calpestando i diritti civili e le libertà fondamentali degli individui (come chiedono una parte dei populisti di estrema destra sparpagliati per l’Europa) non è solo profondamente immorale e illegale, ma inutile e anzi controproducente. Lo insegna la storia.

Faccio un esempio: la Spagna franchista dei primi anni ’70. È difficile negare l’elevato tasso di autoritarismo che caratterizzava il regime del generale Franco. Così elevato da avvicinarlo a una dittatura fascista: il monopartitismo, la stampa sotto il controllo dello Stato, il divieto di sciopero, le fucilazioni e persino le torture. Ma l’ETA, che si era costituito alla fine degli anni Cinquanta, nel 1968 riusciva comunque ad uccidere due uomini delle forze dell’ordine: un agente della Guardia Civil e soprattutto un pezzo grosso come Melitón Manzanas, collaboratore della Gestapo durante la seconda guerra mondiale e capo della polizia segreta nei Paesi baschi.

Nel decennio successivo, un crescendo di violenza (nonostante la dura risposta del regime franchista): nel dicembre del 1973 l’ETA riusciva ad assassinare Luis Carrero Blanco, capo del governo ed erede di Franco, e nel settembre del 1974 uccideva 13 persone e ne feriva una settantina facendo esplodere una bomba nella cafetería Rolando. Com’è noto gli attentati continuarono anche dopo il passaggio alla democrazia (dalle bombe del 1979 agli attentati del 2009), ma il punto è un altro: il terrorismo dell’ETA nacque e crebbe sotto un regime tanto autoritario quanto incapace di stroncare il fenomeno; a sconfiggere l’ETA è stata, negli anni, la democrazia spagnola.

Un altro esempio, questa volta un po’ più a sud: il Sudafrica dell’apartheid. In Italia la storia della Nazione arcobaleno è ahimè poco nota, ma è facile immaginare la potenza dell’apparato poliziesco che il regime razzista, nazionalista e ultra-autoritario del Nasionale Party (partito nazionale in afrikaans) riuscì a costruire dopo le elezioni del 1948. Lo scopo? Reprimere con successo l’opposizione al regime dei neri, degli asiatici e dei cosiddetti coloured (e anche di alcuni attivisti bianchi).

Torture, impiccagioni e processi sommari erano la routine per le forze di sicurezza del Sudafrica bianco, come avrebbe dimostrato anni dopo la Commissione per la verità e la riconciliazione presieduta dall’arcivescovo Desmond Tutu. Eppure la reazione spietata di Pretoria non servì a nulla. Anzi, generò quelli che gli analisti di geopolitica di lingua inglese denominano backfires.

L’ANC al bando, guidato dal pacifista gandhiano e Nobel per la pace Albert Lutuli, si decise (con riluttanza) a creare sotto Nelson Mandela una struttura paramilitare chiamata Umkhonto we Sizwe (MK, la lancia della nazione), che ebbe il suo battesimo del fuoco nel 1961, con l’esplosione di ordigni artigianali in tutto il paese. Non solo: la radicalizzazione dei giovani neri delle township rese le stesse a dir poco ingovernabili, e quasi impenetrabili alle forze di polizia del regime.

Chiariamo: non è mia intenzione paragonare, né dal punto di vista storico né da quello morale, l’ETA degli anni ‘90 con l’MK degli anni ‘80, fermo restando che un attentato come quello al Why Not Magoo’s Bar di Durban da parte di una cellula dell’MK fu definito “una significativa violazione dei diritti umani” dalla stessa Commissione per la verità e la riconciliazione. Tuttavia è evidente come due regimi profondamente autoritari come quello franchista e quello del NP non riuscirono a contrastare con efficacia le organizzazioni armate da essi considerate “terroristiche” e “criminali”.

In compenso, grazie alla loro mano pesante, Madrid e Pretoria riuscirono a inimicarsi fette di popolazione non sempre ostili, e a radicalizzare ulteriormente i loro oppositori. In più la repressione poliziesca contribuì alla stagnazione economica e culturale, all’isolamento internazionale, all’emigrazione dei cittadini più qualificati (specie nel caso del Sudafrica) e a spazzare via ogni residua legittimità morale e politica dei regimi stessi.

Oggi, nell’era dell’economia della conoscenza e del talento come asset strategico per ogni paese industrializzato, puntare su soluzioni autoritarie per reprimere il terrorismo islamista sarebbe ancora più assurdo e antistorico. Amplificherebbe il problema, anzichè risolverlo, e danneggerebbe l’economia, la società e la natura stessa di ciò per cui ci battiamo. Non è con il fascismo e con la restrizione dei diritti civili che si vincerà la sfida lanciata all’Europa dall’ISIS, dai suoi ricchi sostenitori e dai suoi emuli. Ma con l’intelligenza. E quella, nel discorso pubblico così come nell’azione degli Stati, per il momento latita.

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