Diritti
Condannato a morte per una lezione sui diritti delle donne. Succede in Pakistan
Il 21 dicembre scorso, Junaid Hafeez, professore universitario pakistano, è stato condannato a morte per impiccagione, con l’accusa di blasfemia, per aver tenuto una lezione sui diritti delle donne. Una notizia che, nel 2020, dovrebbe sconvolgere a prescindere ma che, purtroppo, rischia di non sorprendere chi è abituato a seguire le vicende del popolosissimo stato asiatico.
In Pakistan, infatti, la legge coranica gode di una notevole considerazione (la Corte federale per la sharia è un decisivo organo giudiziario) e parlare di “parità di genere” significa offendere i dettami religiosi. Piuttosto eloquenti, se presi alla lettera, sull’argomento “subalternità femminile”.
A scanso di equivoci, precisiamo che nella “repubblica” islamica i processi per condotta blasfema, che prevedono l’applicazione della pena capitale in caso di condanna, neanche si contano e non sempre gli imputati arrivano sani e salvi al momento della sentenza. Persino chi si impegna a difendere legalmente chi è accusato può ritrovarsi aggredito o ucciso, proprio com’è avvenuto per Rashid Rehman, avvocato di Junai Hafeez.
Un clima persecutorio agitato dal conservatorismo religioso che si srotola giorno per giorno, con conseguenze drammatiche, nella quasi totale rassegnazione dell’opinione pubblica. Scoraggiata, anche nei suoi segmenti più contrariati, nel dissentire in modo aperto. Ovviamente, con qualche impavida eccezione: ad esempio, in Pakistan, come in altre nazioni a trazione musulmana, esiste un movimento femminista di matrice islamica che contesta l’impostazione patriarcale egemone, spingendo, a suo rischio e pericolo, per una ridiscussione, ispirata da un’etica egualitaria, dell’insegnamento coranico.
In Italia, a dire il vero, spesso per congiunture propagandistiche sfavorevoli o per la chiassosità della politica interna, si parla poco di tutto ciò. Le alternative più battute sono due: la semplificazione delle destre e la rimozione delle sinistre. Non c’è speranza che un serio approfondimento sulla condizione delle donne esposte alle derive teocratiche possa giungere al grande pubblico.
A sinistra si fatica. Bisogna fare i conti con l’affollato sciocchezzaio di cui si nutrono i sovranismi: teorie della sostituzione etnica, razzismi meno cervellotici ed escandescenze bigotte d’accatto, ecc. In pratica, nell’accostarsi al complesso universo islamico, non è mai il momento giusto per sollevare una “questione femminile”.
La Mussolini di turno, il Salvini di turno, la Meloni di turno, non aspettano altro. Scalpitano. Il mercanteggiare con le nostalgie novecentesche più buie è il loro core business. Nostalgie, peraltro, che, paradossalmente, tanto hanno da spartire con l’imprinting fallocentrico delle nostre parti. Non aduso al turbante, temperato, eppure ugualmente inossidabile; paese che vai, maschilismo che trovi…
Basti pensare, da ultimo esempio, al Berlusconi-show di qualche giorno fa. In cui l’ex-premier, copywriter del Bunga-bunga, si è scherzosamente piccato, in piena conferenza stampa post-elezioni, per l’indisponibilità sessuale di Jole Santelli, neo-governatrice forzista della Calabria: “non me l’ha mai data”.
Colpo di coda, l’ennesimo, della belle époque berlusconiana. Coniugabile per le destre italiche, Dio solo sa per quale cazzo di motivo, con il “sono una donna, sono una madre, sono cristiana”, con l’intramontabile “se l’è cercata”, con il family day, con Jerry Calà, con qualche icona porno da prima serata Mediaset, con le “cene eleganti”, con il “bastardi islamici” e con il diffuso “quando a stuprare è un immigrato c’è l’aggravante”. Un mix irripetibile di equilibrismo etico, folklore, pruderie, intolleranza e perizomi.
Chissà loro – le destre disinvolte – come chiamerebbero questo pastrocchio di luoghi comuni parecchio comuni e parecchio feroci. Nazional-femminismo? Post-femminismo? Clerico-femminismo? Tele-femminismo? Oppure non lo chiamerebbero affatto?
Riflettendoci, è raro che “loro” si perdano in chiacchiere da maglioncini a collo alto, non gli servono per arrivare dove vogliono arrivare. Sono gli interpreti del “popolo”, non hanno bisogno di cose polverose come la teorizzazione.
Tuttavia, riconosciamolo, una sensibilità “femminista”, con virgolette di tungsteno, la stanno maturando. Un’idea di emancipazione che strizza l’occhio all’antiabortismo e alla rivalutazione dei ruoli storici assegnati alle donne comincia a farsi strada. Un’idea di emancipazione che, ad esempio, combatte il velo non in quanto strumento di oppressione religiosa, come vorrebbe una prospettiva laicista, ma in quanto ostile alla nostra tradizione culturale. Un’idea di emancipazione che, insomma, fate un po’ voi…
Sarà per questo, ribadiamo, che, a sinistra, in Italia, “capita” che intere schiere di inquisitori rudimentali, spose bambine, burka, delitti d’onore, infibulazioni e tanti altri abomini trovino poco spazio. Per questo e, forse, per l’affermarsi di un certo femminismo post-coloniale, a volte sin troppo ortodosso, incline alla stigmatizzazione di qualsiasi visione etnocentrica: gli standard occidentali, secondo tale linea di pensiero, non sono declinabili in contesti culturalmente distanti e sovente portano con sé le tracce dell’oppressione del colonizzatore.
Eppure, al di là di certo etnocentrismo acritico che andrebbe sempre tenuto a bada e al di là di una contingenza socio-politica avvezza allo sciacallaggio e alla strumentalizzazione, non possiamo più ignorare il fatto che in nazioni come il Pakistan si rischi la morte nel parlare di “diritti delle donne” o che in Iran una ragazza, Sahar Khodayari, si sia data fuoco per rivendicare il proprio diritto di assistere a una partita di calcio.
“Il grado dell’emancipazione femminile è la misura naturale dell’emancipazione universale” afferma un Charles Fourier ripreso da Karl Marx. E una sinistra moderna e libertaria non crediamo possa distanziarsi così tanto da questo concetto, per quanto etnocentrico possa apparire.
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