Diritti

Che cos’è l’Olocausto?

28 Gennaio 2015

Nonostante ogni anno si ripeta in coro, diligentemente ordinati in terzine e quartine, che la Giornata della Memoria debba essere estesa per 364 volte, anche quest’anno –come ogni anno- la Giornata della Memoria è finita, è chiusa. La serranda chiude i battenti, le autostrade si svuotano, ed è proprio oggi che noi invece decidiamo ad esempio di prendere e partire, in controesodo. Niente di sontuoso per carità, si tratta soltanto di sistemare due bagagli piuttosto agili e concederci un viaggio: destinazione? Memoria, appunto.

Qualcuno già storce il naso immaginando che il racconto partirà con una sequela piuttosto lunga di genocidi  -armeni, borbonici, curdi, nativi americani, palestinesi, maya, inca, aztechi e via dicendo- da offrire come contraltare nel ricordo annuale dell’Olocausto, quasi fosse una disputa.

Ora, credendo nell’essenziale invisibile agli occhi ci si può interrogare sul motivo per cui davvero in pochissimi si chiedano perché venga adottata tale specifica nomenclatura per indicare un unico evento, e soprattutto per differenziarlo da altre brutture simili.

Prima di partire dunque prendiamo dal secondo capoverso la parola “Olocausto”  la infiliamo nello zaino e, volendo esagerare, ci prendiamo anche la locuzione “offrire come contraltare”. Perché? Perché il termine olocausto significa –e non deriva- in primo luogo “bruciare intero” (òlos = tutto e kaystòn = bruciare), e ha derivazione –qui sì- rituale e sacra.

L’Olocausto è un sacrificio, un sacrifico è entrare in contatto con Dio offrendogli qualche cosa. Per gli antichi greci l’olocausto era un ringraziamento a Zeus tramite la combustione di un animale del gregge, solitamente l’animale più degno e puro. Le parti migliori venivano fatte carbonizzare in modo tale da regalare i fumi a Zeus, e con il resto si organizzava un banchetto in suo onore. Anche per gli ebrei l’olocausto prevedeva appunto il sacrificio di un animale -solitamente l’agnello oppure il montone più forte del gregge- scelto per la sua purezza. La purezza -di spirito, di corpo- è infatti il parametro su cui si setta il collegamento tra l’uomo e la divinità.

Infatti il termine ebraico per definire olocausto è holèh, che vuol dire “ciò che sale”, in riferimento appunto al fumo della combustione che ascende a Dio. Per capire quanto la genesi di questi termini sia poi entrata nel nostro gergo comune, basti pensare nel caso di olocausto al vocabolo caustico che usiamo per definire una persona o un’espressione particolarmente cinica e pungente e che letteralmente vuol dire “sapore bruciante” o “sostanza infiammabile”; nel caso di holéh basti pensare al verbo olere latino –da cui ad esempio deriva olezzo- che aveva il significato letterale di “tramandare odore”.

Ora, fermandoci un attimo per una sosta, ci accorgiamo non senza stupore che si sta parlando di sacralità in merito a una parola atta a identificare un genocidio. Questa strada può apparire impervia ai più, d’altronde è facile rimanere sorpresi se si considera che tutto lo scibile inserito nell’ordine del sacro per noi assume automaticamente un connotato positivo, quasi fosse in contrapposizione all’omicidio, impuro atto terreno.

Non è proprio così. Innanzitutto partiamo dall’evidenza dell’espressione “spargimento di sangue”, adottata spesso per far indossare gli abiti dell’efferatezza ai più svariati delitti ma in realtà anch’essa di origine sacra: durante il rito dell’olocausto infatti l’animale veniva sgozzato e fatto dissanguare, lasciando scorrere il sangue puro ai due lati dell’altare, per lavare il peccato.

Prendiamo ad esempio quello di Mosè:

Il Signore chiamò Mosè e gli disse: Quando uno di voi vorrà presentare come offerta in onore del Signore un animale scelto, offrirete un capo di bestiame grosso o minuto […] Se la sua offerta è un olocausto di bestiame grosso, egli offrirà un maschio senza difetto […] l’offrirà all’ingresso del santuario, perché sia accetto al Signore in suo favore […] scannerà il giovenco davanti al Signore, e i figli di Aronne, i sacerdoti, offriranno il sangue e lo spargeranno […] i sacerdoti porranno il fuoco sull’altare e metteranno la legna sul fuoco; poi bruceranno il tutto sull’altare […]è un olocausto, sacrificio consumato dal fuoco, profumo gradito in onore del Signore.

(cf. Lev 1,1-16)

Da qui si evidenzia in primo luogo l’indispensabile purezza  (“senza difetto”) del sacrificio, in secondo luogo l’importanza rituale dello spargimento di sangue, l’agognato gradimento del Dio attraverso l’holéh del profumo, che rappresenta il collegamento –e dunque la trascendenza- dal terreno al divino.

Nella Bibbia il sacrificio compare con Caino e Abele, dopo la cacciata dell’uomo dall’Eden. Ecco qui la risposta: il sacrificio è il modo con cui l’uomo -il cui legame con Dio è rovinato dal peccato- tenta di ricongiungersi all’idea di purezza, sacrificando una vita animale -ma anche umana- “in sostituzione” della sua vita da peccatore.

Anche ad Abramo Dio chiede un sacrificio, e per testare la sua fede gli ordina di immolare il figlio Isacco. Proprio sul punto di morte Isacco però viene risparmiato dallo stesso Dio, resosi conto della purezza di spirito di Abramo, e sostituito con un montone.

Nel Nuovo Testamento è Gesù Cristo che si sostituisce alle sue pecore:

Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e offro la vita per le pecore. Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso.

(Gv, 10-14)

Questo il motivo per cui cessarono molti sacrifici: perché così come l’animale veniva offerto all’altare in sostituzione del peccatore, così Gesù si incarnò “agnello di Dio che toglie i peccati dal mondo”, rendendo formalmente inutili i sacrifici praticati fino ad allora.

I discorsi su questo punto sarebbero molteplici, e partono tutti dall’assunto che il sacrificio da solo non basta a connotare l’espiazione dei peccati e l’automatica accettazione di Dio attraverso il suo gradimento. Un esempio calzante è appunto il primo sacrificio della Bibbia, quello di Caino e di Abele. Dio infatti «gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta (cf. Gen 4,2-8)». Perché? Forse perché Caino offrì i frutti del suolo e Abele offrì invece il sangue e il corpo (animale): in fondo «la vita della carne è nel sangue» (Levitico 17:11) e «senza spargimento di sangue non c’è perdono dei peccati» (Ebrei 9:22).

Questa potrebbe essere una spiegazione su due piedi, ma non è solo per questo che Dio non gradì il sacrificio di Caino. La questione sta nel fatto che è importante il rito ma altrettanto importante è la connotazione della poca fede, dell’invidia, della malvagità. Caino sacrifica senza devozione, ma con presunzione. Caino dopo il rifiuto si arrabbia, ma Dio prima gli chiede il perché, poi lo caccia e lo marchia, per far sì che sia sempre riconosciuto come “un membro estraneo”. D’altronde lo stesso Filone descrive Abele nel Commentario Allegorico della Bibbia come «la santità contrapposta alla materialità di Caino, l’anima dell’uomo malvagio, l’idea stessa del peccato, il senza-Dio, il male incarnato, il folle», mentre interessante è la storia della setta gnostica dei Cainiti, risalenti al II secolo d.c., la cui teoria religiosa aveva alla base la dicotomia tra Vecchio Testamento e Nuovo Testamento: per i Cainiti il Dio del Vecchio Testamento è un demiurgo, tiranno del mondo e vero nemico di Dio, che invece ha il nome di “Sophia”.

Bene, il sole tramonta ed è giunta l’ora di rientrare. Una gita fuori porta, nulla di più. Una giornata per comprendere che l’Olocausto, pur riferendosi a un genocidio, non è soltanto un genocidio: è per questo che ogni paragone con qualsiasi altro eccidio avvenuto per ragioni politiche, economiche e militari non può reggere il confronto. L’Olocausto nazista  –altrimenti non sarebbe chiamato così- ha una componente rituale trascendente, una componente rituale però completamente distorta. Per fare un esempio, sembra che i nazisti avessero la consapevolezza di aver scelto il sacrificio degno ma lo giustificarono come un eliminazione del meno degno. Insomma, un rito per i propri interessi nel vano tentativo di ingraziarsi Dio senza però liberarsi dal peccato, tenendo buono quest’ultimo magari per sostituirsi un giorno a Dio stesso.

Diciamo che pur orrendamente ambiziosa, non fu un’idea dai grandi risultati.

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