Diritti
Breve storia delle Madri e Nonne di Piazza di Maggio
Le anzianissime madri sono sedute su sedie bianche e verdi di plastica, come quelle dei circoli unione. Una giovane donna parla dei contadini del Chiapas ma pochi seguono il discorso. Turisti fanno le foto distrattamente e bambini giocano coi loro videogiochi. Comizi inascoltati si alternano a momenti musicali. Suonatori attempati che sembrano usciti direttamente dalle nostre feste di un’Unità – mai così lontana – improvvisano tanghi e milonghe d’epoca. I microfoni fischiano spesso. Hanno tutti i capelli bianchi, e chi non ce li ha non sta capendo molto di dove si trova. Oggi assistere ad una riunione delle Madri di Plaza de Mayo è come vedere una diretta di quel catechismo dell’antifascismo – vivida rappresentazione della sconfitta di tutte le sinistre – che genera solo lontananza e noia, nessun sentimento di intimità con l’orrore, o col dovere del ricordo e della sua celebrazione. In un angolo, seduta e sorridente, con lo sguardo più fiero e semplice che abbia mai visto, c’è Vera Vigevani Jarach.
In Italia l’ultima volta che il grande pubblico sentì parlare delle madri di Piazza di Maggio fu nel 2014. Vera – ospitata da Fabio Fazio (monumento al nulla e alla vocazione della sinistra al catechismo inutile e deleterio), su Raitre. Dolcemente impacciata e lenta rispetto ai tempi televisivi, venne introdotta come ‘simpatica tenera vecchietta’ dalla vita avventurosa e complicata – e venne così snaturata all’istante. Tale rimase, quindi, il suo personaggio nella mente dei telespettatori. Ma come al solito la storia si rivela più complessa e meno facilmente traducibile di come viene raccontata in televisione. Vera Vigevani Jarach – oggi ottantanovenne – è una testimone diretta dei due Olocausti del secolo scorso. Ebrea italiana emigrata in Argentina subito dopo la promulgazione delle leggi razziali sotto il Fascismo, ha vissuto prima la morte di suo nonno – che si rifiutò di espatriare e morì in un campo di concentramento – e poi la sparizione di sua figlia, anni dopo, sotto la dittatura militare argentina del generale Videla.
Il 25 giugno del 1976 sua figlia Franca – studentessa attiva nei circoli e nei movimenti che si opponevano alla fresca dittatura – venne rapita dalla ESMA, la polizia segreta del regime. Prelevata da un bar di Buenos Aires nei giorni in cui improvvise sparizioni di giovani studenti si ripetevano freneticamente in tutti gli angoli del paese, venne condotta in un luogo segreto, torturata e poi uccisa in un volo della morte. Aveva diciotto anni. Vera ricevette una telefonata di rassicurazione da sua figlia poco prima della sua definitiva sparizione. Cominciarono la conversazione in italiano, ma poi Franca disse che le era stato ordinato di parlare spagnolo. Disse ai suoi genitori che stava bene e che sarebbe tornata presto. Nel frattempo innumerevoli famiglie che non avrebbero mai rivisto i propri figli ricevevano telefonate simili.
Raimondo Bultrini sulla Repubblica parlò di “Olocausto sudamericano”, ed è difficile dargli torto. 30 000 desaparecidos, 15 000 fucilati, 9 000 detenuti e un milione e mezzo di esiliati. Un’intera generazione di argentini venne spazzata via in soli tre anni. (Mentre i loro coetanei cileni se la passavano ancora peggio sotto Pinochet.) Una tragedia immane conclusasi solo poco più di trent’anni fa, ma di cui si parla poco o nulla, da questa parte dell’Oceano – quella fortunata. Vera scoprì il destino di sua figlia solo nel 2000 grazie a una superstite della dittatura che venne torturata insieme a Franca e che si decise a parlare solo dopo vent’anni per paura di ritorsioni, e perché la sua mente aveva rimosso i ricordi troppo dolorosi. La verità sui voli della morte era già venuta a galla: migliaia di ragazzi gettati vivi e morti dagli elicotteri dell’esercito, nell’oceano o nelle lande desolate delle Ande e della Patagonia. Soluzione estrema ed economica al sovraffollamento delle carceri di regime.
Los Vuelos dei Bersuit Vergarabat, dall’album Libertinaje, del 1998
Vera Vigevani Jarach ebbe così il discutibile lusso di sapere cosa successe a sua figlia, in un paese e in anni in cui la verità era una rarità e l’impunità era legge. Lascio al lettore decidere se sia meglio conoscere l’orribile verità circa la fine dei propri cari, o continuare a cercare i loro resti nei deserti di Atacama o della Patagonia, dove ancora oggi decine di donne camminano con la testa bassa, cercando nella polvere di valli sterminate un osso o un dente dei loro figli. Molte altre scrutano l’oceano in attesa di una risposta. Lo splendido documentario Nostalgia de la Luz del regista cileno Patricio Guzmàn racconta (tra le altre cose) la storia di queste donne abbandonate, che seguono un richiamo biologico ancestrale, e battono senza sosta da anni le lande più desolate del nostro pianeta, cercando una pace impossibile.
Gli sforzi di Vera si unirono presto a quelli della storiche madri di Plaza de Mayo, ed è anche grazie a loro se oggi una parvenza di discussione sulle conseguenze della dittatura – seppur tra innumerevoli sforzi e reticenze – sta avvenendo in Argentina. In Cile, al contrario, quegli anni rimangono ancora un infrangibile tabù. Le Madri di Plaza de Mayo sono un’associazione di madri, mogli e compagne di desaparecidos che dal 1977, ogni giovedì, si riunisce in Plaza de Mayo di fronte al palazzo del governo per rivendicare la scomparsa dei loro cari. Vale la pena ripeterlo: ogni giovedì, dal 1977. La prima fu Azucena Villaflor de De Vincenti – in seguito anche lei desaparecida – il 30 aprile 1977. Insieme ad uno sparuto gruppo di altre donne colpite dalla sparizione dei loro cari, si annodò un fazzoletto bianco in testa – il pañuelo, richiamo al pannolino e alla condizione di madre – e passeggiò silenziosamente intorno al palazzo presidenziale della Casa Rosada. Gli stazionamenti erano vietati, doveva camminare. Negli anni le Madri sono state uccise, rapite, torturate e manganellate in piazza. Ma non hanno mai mancato neanche un giovedì. E sono tuttora presenti sia a Buenos Aires che in quasi tutte le altre grandi città del paese. Vivida rappresentazione della grande ferita aperta della società argentina che obbliga, fiera e tenace, al dibattito.
Nel 1986, però, la loro storia subì una brusca interruzione a causa della scissione operata da alcune Madri. Coloro che decisero di accettare la riparazione economica del governo per i danni subìti durante la dittatura – spinte dalla fame e ormai sole, senza compagni e senza lavoro – si separarono dalle Madres De Plaza de Mayo – Linea Fundadora, che non accettarono nessun compromesso – visto come irricevibile contentino. Entrambe continuarono a battersi per il riconoscimento da parte del governo del vero numero delle vittime del regime: 30 000. Poi negli anni, in una storia che sembra metafora delle sinistre nel mondo, l’Associazione Madres de Plaza de Mayo è andata però inglobando dentro di sé tutte le altre lotte mondiali della Izquierda storica – sudamericana e mondiale. Si è fatta portavoce delle battaglie sandiniste, poi anti-imperialiste, poi anti-global e anti-capitalismo, e così è finita purtroppo col diluire il suo messaggio originale.
Hanno perso in efficacia. Come la triste liturgia di tutte le “Giornate della Memoria” del mondo – inefficienti e ritrite celebrazioni che pontificano da un altare, mentre i giovani ascoltano distrattamente e pensano ad altro – le riunioni del giovedì delle Madri celebrano una predica ai già convertiti, sempre uguale e fine a se stessa, catartica per chi quelle tragedie le ha vissute, ma nient’altro che “interessante e folkloristica” per tutti gli altri. Ed è così che gli incontri delle Madri hanno subìto l’onta peggiore: essere diventati un’attrazione. I turisti stanno lì, non ascoltano, non parlano spagnolo e non imparano nulla. “Ah, qui c’è stata una dittatura.” E poi vanno alla tomba di Evita – quella del musical.
È difficile trovare la chiave per trasmettere in maniera vivida ciò che è successo in Argentina – e ciò che è successo nelle infinite tragedie e orrori della Storia recente e non. Troppo spesso si finisce per ripetere stancamente parole e formule vacue che falliscono nel far recepire e sentire nelle ossa quello che è stato. E il ricordo muore nella maniera più triste, mentre tutti ne parlano.
Da noi, invece, certe storie non sono neanche mai arrivate.
Dal 1976 in poi, con l’inizio della dittatura, i sequestri furono sistematici. Migliaia di giovani vennero ammazzati e i loro figli rubati, dati in adozione o venduti a famiglie complici del regime. Migliaia di adulti, attualmente quarantenni, scoprono ora di essere cresciuti in famiglie che non sono biologicamente loro. All’improvviso scoprono che i loro genitori sono morti torturati anni fa, nei centri della ESMA, o gettati vivi da elicotteri dell’esercito. Molti non lo sapranno mai. Un’altra associazione si occupa di ricostruire queste storie, le Nonne di Plaza de Mayo. Attualmente ultraottantenni, sono le madri di giovani coppie in cui la donna era incinta al momento del rapimento. Ai tempi della dittatura le loro figlie vennero torturate sotto la supervisione di medici e preti compiacenti, per tenere in vita il bambino nel loro grembo che – al momento del parto – veniva strappato dalla madre – poi uccisa – e messo in vendita. A La Plata, Buenos Aires, Cordoba e Mendoza vennero aperti innumerevoli negozi che vendevano alla luce del sole i mobili rubati dalla polizia e dall’esercito nelle case dei dissidenti uccisi. I loro figli erano solo altri oggetti destinati a una rete di commercio più nascosta. Ci sono centinaia di storie del genere nei documenti delle Nonne di Plaza de Mayo, che non hanno mai smesso di cercare questi bambini – a volte con successo. Lo scrittore italiano Massimo Carlotto, nipote di una di loro, ne descrive bene alcune nel libro Le Irregolari (Edizioni e/o), ma la mole di queste storie è infinita.
Tiziano Terzani, in un articolo da inviato nella guerra in Vietnam, scrisse “il primo morto, quando lo vedi, ti lascia paralizzato. Gli altri li conti solamente.” Succede lo stesso con queste storie. La banalità del male, il suo terribile ripetersi sempre uguale, ti distrae. All’ennesimo racconto di un diciottenne torturato davanti alla sua compagna il cervello si paralizza, dimentichi il suo nome e quella vicenda diventa un numero. E questa è la parte peggiore dell’orrore. La sua monotonia.
Al termine della dittatura molti si illusero che ci sarebbe stata una ricerca e una restituzione dei bambini scomparsi. Ma non successe niente. La totalità di queste operazioni è in mano a associazioni private come le Nonne di Plaza de Mayo. La dittatura è finita nel 1983 e ancora si cerca e si lavora. Ma, soprattutto, ancora continua a sparire gente. Ogni anno in Argentina scompaiono nel nulla in media mille persone, quasi tutte ragazze, rapite e destinate al mercato della prostituzione. Spesso povere o provenienti da ambienti degradati, ma non sempre. Marita Veron era un’avvenente ragazza di buona famiglia e venne rapita nel 2002. Ritrovata dalla madre dopo innumerevoli ricerche, venne restituita da giudici corrotti ai suoi stessi rapitori, nell’incredulità e nello sdegno di un paese intero. La sentenza venne rivista, ma Marita non fu più ritrovata. Le Madri e le Nonne di Plaza de Mayo si occupano oggi anche di queste storie.
L’Argentina non ha fatto pace con se stessa, e non sembra in grado di farlo. Al termine della dittatura vennero promulgate due leggi: quella del “punto finale” che sanciva l’impossibilità di processi futuri; e quella dell’”ubbidienza dovuta” che attenuava le pene (già ridicole) dei pochi torturatori arrestati (pesci piccoli usati come capri espiatori) – perché loro non facevano altro che “eseguire ordini”. Una legge distopica che sembra scritta da una versione distorta e spietata di un lettore della Arendt.
La banalità del Male e del suo ripetersi rimane odiosa e non guardata – sotto gli occhi di tutti. L’orrore segue indisturbato mentre poche oasi di empatia lavorano per ostacolarlo. È dovere di cittadino e di uomo segnalare queste presenze e celebrarle per ciò che sono – dimostrazioni di forza e di speranza – senza infiocchettare inutili cerimonie atte a distogliere l’attenzione dai doveri propri.
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