Diritti
Benvenuti in Friulia Venezia Giulia, frontiera d’Europa che parla pashtu e urdu
Possono essere due le reazioni alla paura: nascondersi o scappare. Da un terremoto e da una guerra si scappa più o meno per la stessa ragione: evitare di morire sotto le “macerie”, con una differenza. Di fronte alle prime si resta inermi, ma le seconde dovrebbero essere fermate.
Qui, tra le montagne col chino bianco, residuo della scarsa neve fioccata durante l’inverno, a distanza di 40 anni convivono entrambe le categorie di persone che sono fuggite. Qui è il profondo nord est, Friuli Venezia Giulia, in provincia di Udine dove, tra pochi giorni, si ricorderà quel feroce terremoto che nel maggio del ’76 entrò nelle case portando via la vita a quasi mille persone e sfollandone altre 100 mila. E proprio qui, a pochi chilometri dal paesino fantasma di Portis, dove ora la Croce Rossa di Udine organizza esercitazioni di protezione civile, sono nate nell’ultimo anno e mezzo diverse strutture gestite dalla CRI per accogliere i migranti in fuga. “Perché da noi c’è la guerra”, rispondono afghani e pakistani, richiedenti asilo a Venzone, Tarcento, Magnano, posti che ancora a 100 anni di distanza conservano l’eco delle bombe di un altro conflitto ben più conosciuto. Qui, dove si parla pashtu e urdu, ci si arriva dai confini con l’Austria e la Slovenia, diventate ormai fortezze invalicabili, ma solo in entrata anche senza il bisogno di costruire le nuove barriere in vista, come quella del Brennero.
Qui incontriamo centinaia di uomini tra i 20 e i 40 anni che ogni giorno ricevono dalla CRI di Udine quell’accoglienza che altri negano. E anche se il futuro e la speranza di vedersi riconosciuti una protezione sembrano sempre più lontani (sono in aumento i casi di diniego da parte delle Commissioni territoriali, ndr), non mancano in questi centri scene di ordinaria normalità e di fratellanza. Come la preghiera comune che una sera di qualche mese fa riunì tutti gli ospiti della caserma Cavarzerani a Udine per salutare il fratello morto in guerra di uno dei migranti accolti. O quando, nello stesso posto che ha funzioni di hub, arrivò una famiglia al completo con due bambini, coccolati e accolti da tutti gli altri.
Nella caserma Cavarzerani e alla Friuli si attende di essere ricollocati in un’altra struttura della Regione. Nel frattempo si fanno lezioni di italiano e di primo soccorso, ci si adopera in lavori di manutenzione di tutta l’area e si gioca a cricket e a pallavolo con reti create ad hoc usufruendo di quel che si ha a disposizione: pochi mezzi ma tanto ingegno.
E poi ci sono le singole storie, di chi ad esempio è stato per sei anni in Germania e poi, con la perdita del lavoro, ha dovuto ricominciare tutto da capo, intraprendendo una nuova migrazione. O chi giocava nella nazionale di calcio afghana e oggi si ritrova in un centro con altri 20 connazionali che nemmeno lo riconoscono “perché, lo sapete, noi il calcio lo seguiamo poco”. Le famiglie o quel che è rimasto di esse sono lontani, ma almeno c’è la consolazione delle montagne che così tanto somigliano a quelle vicino a Kabul come ci racconta Javid, oggi mediatore culturale della CRI di Udine, “Sto bene perché il vostro paesaggio mi ricorda quello del mio paese”.
A Udine senza distinzione
A Udine e nella sua provincia la migrazione è aumentata nell’ultimo periodo, dai due accessi ogni settimana si è arrivati a circa 10 persone ogni giorno. La popolazione locale, non sempre contenta di questo nuovo volto dell’accoglienza nel nord est, frequenta però gli stessi ristoranti dove i migranti, ospiti nelle strutture alberghiere, mangiano, dando vita a una situazione mista, difficile da pensare o da vedere in altri luoghi d’Italia. È la bellezza di questa terra, così chiusa ma così sorprendente come quando mostra il suo volto umano portando buste piene di abiti e di cibo nella sede del Comitato della Croce Rossa, alle spalle di quello che viene definito il Bronx di Udine, dove due volte a settimana si effettua la distribuzione dei pacchi viveri e degli abiti alla popolazione locale più indigente. Sono quasi 3200 le persone aiutate nel 2015, di cui 633 over 65. E già nei primi mesi del 2016 risulta un aumento del 10% circa di italiani che ricorrono all’aiuto della CRI. Qui, come in altre parti d’Italia dove opera la Croce Rossa, non si fa distinzione. La legge unica è alleviare la sofferenza umana, di qualsiasi colore, razza e religione essa sia.
L’ambulatorio di Gorizia per migranti e popolazione locale
Così come avviene nell’ambulatorio della CRI di Gorizia dove, dal 2013, si garantiscono cure e assistenza indifferentemente alla popolazione locale e ai migranti presenti sul territorio. Nella sede del Comitato, questo piccolo avamposto di solidarietà e umanità ha effettuato circa 2700 prime visite grazie al contributo di medici volontari della CRI, Infermiere Volontarie e dottori dell’azienda sanitaria e di Medici Senza Frontiere con cui è in corso da qualche mese un accordo di collaborazione. Anche a Gorizia si parla pashtu e urdu perché anche qui la migrazione arriva da est e porta i segni della guerra. Lo racconta Gaetano, medico della CRI: “Vengono da noi per patologie dermatologiche, respiratorie, ma mostrano anche segni di ferite da arma da fuoco, torture di ogni tipo”.
Afghani e pakistani arrivano a Gorizia da Tarvisio, dopo lunghi mesi di viaggio. “Ho visitato 9 Stati”, ammettono i migranti quasi con orgoglio. Anche se sanno bene che il loro non era turismo, non lo è mai.
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