Diritti
Behrouz Boochani, cronache dalla Guantanamo australiana
C’è un giornalista iraniano di origine curde ingiustamente detenuto da quattro anni in una delle carceri della Papua Nuova Guinea, e in pochi ne parlano.
Behrouz Boochani, è recluso – insieme ad altri ottocento uomini – sull’isola di Manu, e tramite i suoi profili Facebook e Twitter riesce a denunciare gli abusi che sono costretti a subire quotidianamente i migranti.
Sono sette mesi che seguo assiduamente il profilo di Behrouz: appena ho scoperto che la sua pagina personale era attiva e costantemente aggiornata, gli ho inviato la richiesta e mi ha accettato. Mi sono annotato i suoi post, ho salvato le foto che ha condiviso, e gli ho fatto alcune domande. Dopo un’ulteriore documentazione ho deciso poi di raccontare la sua storia.
Behrouz Boochani è nato a Ilam, città del Kurdistan iraniano, nel 1983.
E’ un giornalista indipendente che ha fondato una rivista socioculturale, Werya.
Nel febbraio 2013, mentre Behrouz si trovava a Teheran, i guardiani della rivoluzione sono entrati nella redazione arrestando tutti i componenti presenti.
Dopo tre mesi di latitanza – nel maggio del 2013 – decise di fuggire in Australia, convinto che lo avrebbero accolto come rifugiato politico per la particolare attenzione ai diritti umani.
A luglio, mentre viaggiava su un barcone con altri 75 migranti, viene arrestato dalla marina australiana e portato nel centro di identificazione di Christmas island, dove fa richiesta di asilo politico.
Proprio in quei giorni il governo laburista di Kevin Rudd aveva deciso un importante cambiamento riguardo alla politica di accoglienza dell’Australia; politica tanto elogiata dall’estrema destra europea, in primis dalla leader del Front National – Marine Le Pen.
Secondo le nuove direttive, in vigore dal 19 luglio 2013, i profughi che arrivavano via mare dovevano essere smistati: gli uomini in Papua Nuova Guinea, donne e bambini a Nauru. Soltanto lì avrebbero potuto avanzare la richiesta di asilo politico.
I detenuti provengono principalmente da Africa, Asia e Medio Oriente: in particolare da Iran, Iraq, Sri lanka, Afghanistan, Sudan e Nepal.
La Papua Nuova Guinea è un paese rurale, molto povero e con un alto tasso di criminalità.
I rapporti con la popolazione locale sono molto complicati, e Boochani non li biasima dal momento che “anche loro sono vittime di questa politica, e il governo non ha chiesto il loro parere. L’isola ha un’economia fragile ed è scarsamente popolata: ecco perché la vedono come una sorta di invasione”. La tensione è alta, tant’è che nel febbraio 2014 la polizia ha fatto irruzione nel centro di detenzione con al seguito alcuni abitanti del posto armati di coltelli e bastoni, e hanno aggredito i migranti. In seguito a questi disordini ha perso la vita un suo connazionale poco più che ventenne.
Tra i detenuti vi sono anche alcuni uomini costretti a fuggire dal paese d’origine a causa del proprio orientamento sessuale, per poi approdare in Australia, convinti di poter godere di una maggiore libertà. Ora invece sono detenuti in Papua Nuova Guinea, dove l’omosessualità è un crimine e si rischia una pena detentiva di quasi 15 anni.
Behrouz, nel dicembre 2016, ha denunciato – oltre i vari soprusi che devono subire ogni giorno i migranti – anche le pessime condizioni sanitarie, puntando il dito contro l’azienda che ne è responsabile all’interno del campo, l’Ihms. Di conseguenza sono scoppiati disordini durante una protesta dei detenuti in cui ha perso poi la vita un ragazzo sudanese, la vigilia di Natale dell’anno scorso.
Sta lavorando a un romanzo e – in collaborazione con un regista olandese – a un documentario, girato interamente col suo cellulare, intitolato “Chauka, per favore dicci che ore sono”. (Chauka è il nome dell’unità di isolamento del campo)
Le foto e i messaggi che posta il giornalista curdo sui suoi profili sono le uniche informazioni che giungono al mondo esterno, ma pare che comunque non possa scrivere tutto quel che vuole. Non ha una rete Wifi, ma si connette grazie alle continue donazioni che gli vengono fatte da chi lo sostiene. Il suo smartphone è stato sequestrato ben due volte ed ha dovuto barattarne nuovamente un altro di nascosto. Ogni detenuto ha diritto a ’25 punti’ ogni settimane, da spendere allo spaccio del campo: solitamente si comprano le sigarette, che sono la merce più facile da scambiare con gli uomini del posto.
Boochani, che inizialmente lavorava nell’anonimato, ora pubblica frequentemente aggiornamenti e foto delle condizioni in cui vivono e delle violenze subite dai profughi – dentro e fuori dal campo – catturando così l’attenzione dei media internazionali. A ben poco ha portato invece lo sciopero della fame durato due settimane e intrapreso con altri detenuti per denunciare le precarie condizioni in cui sono costretti a vivere.
Vive in una tenda con altre quaranta persone, in mezzo allo sporco, dove dormire è quasi impossibile.
Nell’aprile 2016 la Corte suprema della Papua Nuova Guinea ha ordinato di chiudere il centro dell’isola di Manu perché non rispetta i diritti sanciti dalla Costituzione.
A novembre dello stesso anno, è stato trovato un accordo tra gli Usa e l’Australia. Si trattava di uno ‘scambio di migranti’: gli Stati Uniti avrebbero accolto 1250 profughi provenienti da Manu e da Nauru, in cambio dei richiedenti asili provenienti dall’America Centrale.
Una volta divenuto Presidente, Donald Trump ha twittato: “Incredibile, l’amministrazione Obama ha accettato di prendere migliaia di immigrati illegali dall’Australia. Che stupido accordo!”, demolendo così la piccola speranza nata tra i migranti pochi mesi prima.
L’accordo precedente, inoltre, si trova in contrasto con il muslim ban (il decreto sull’immigrazione di Trump), dal momento che molti profughi appartengono alla lista dei paesi avversi agli Stati Uniti.
Per giunta, sull’isola di Manu e a Nauru, ci sono 1616 profughi. Che ne sarà dei 366 che non rientra negli accordi? Come avverrà la selezione?
Behrouz Boochani ha già fatto sapere che andrà in America solo se sarà sicuro di denunciare in tribunale l’Australia.
In questi giorni è in corso un’altra protesta all’interno del campo di Manu, e sta durando da più di un mese. Boochani si fa portavoce dei detenuti e scrive sul suo profilo e invoca una maggiore attenzione internazionale ai crimini del governo australiano a Manu e a Nauru: “In questi giorni la crudele politica australiana è una questione internazionale, e dovremmo lavorare di più con i media. I giornalisti nel mondo stanno seguendo la questione e sono certo che se il governo australiano intende portare i rifugiati con la forza in Papua Nuova Guinea, sarà un grosso errore politico. Il mondo sta guardando l’Australia.”
Nel campo si alternano sentimenti di rabbia, speranza e frustrazione.
L’immobilismo e l’indifferenza delle istituzioni internazionali è alquanto imbarazzante, mentre nei centri di detenzione si prova a resiste. Lì dove, come dice Boochani, “la tortura peggiore tra quelle subite non è quella fisica, bensì quella del tempo”.
Tommaso Proverbio
(Foto di Ashley Gilbertson e di Behrouz Boochani)
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