Diritti
Adiosu, Michela
Ho conosciuto la scrittura di Michela Murgia con “Accabadora“.
Un romanzo che trasporta il lettore dentro la storia di una Terra che, con compostezza, amore e sapienza, ha sempre saputo affrontare la vita e persino la morte.
In “Accabadora” si affronta il tema dell’eutanasia e dell’ultimo gesto amorevole che libera l’essere umano, pienamente consapevole e convinto, da una vita che ormai ritiene essere solo una prigione per un’anima che anela alla piena libertà.
Michela Murgia ha insegnato agli italiani che quello di cui si discute da tanto è stato già realtà in una Terra che per certi versi, e nonostante un odioso stereotipo, è stata più avanti di tanti.
Nello stesso romanzo è riuscita a raccontare una realtà che non ha avuto bisogno di documenti per secoli: l’adozione.
Il “fizzu ‘e anima” è il figlio che non può avere un futuro in una famiglia numerosa e povera che non può dargli nulla, ma che invece può trovare una madre o un padre che possono amarlo, crescerlo e dargli una possibilità.
Il figlio dell’anima è il figlio amato, voluto, il figlio dell’anima non è il figlio del corpo, del sangue, ma è figlio, estremamente e fortissimamente figlio.
L’adozione, quando non aveva bisogno di trafile burocratiche, richiedeva un amore immenso e la volontà di dare tutto.
E l’adozione non era per la coppia, ma anche per un singolo genitore, perché essere bravi genitori non è sempre legato ad una relazione sentimentale.
Michela attraverso la Sardegna e le sue tradizioni, le sue usanze e la sua dimensione estranea e contemporaneamente centrale, ha parlato di temi che, oggi più che mai, sono fondamentali.
Nella vita poi ha portato avanti le sue idee e le sue lotte e si è circondata dei suoi figli d’anima e delle persone con cui ha condiviso amore puro, al di là dei ruoli e delle categorie che non ha mai accettato.
Ho salutato Michela leggendo “Tre ciotole“.
E qui ho ritrovato la malattia e la fine.
Una lotta che non è lotta, ripulita dal bellicismo ipocrita che nutre più lo spettatore che il malato.
Tutti i malati affrontano un mostro, ma quando il mostro vince non vuol dire che il malato è stato meno forte di altri o che la sua voglia di vivere era più debole.
Ho visto i miei capelli cadere, li ho fatti rasare, ho rasato i capelli altrui, lunghi e lucenti come l’anima bella che li portava e li riporta, e ho cercato di tenere il sorriso di Michela.
A volte però ho ceduto.
Proprio perché so cosa vuol dire, vedere Michela affrontare così quei momenti, che disgraziatamente si sarebbero rivelati gli ultimi, mi ha toccato profondamente.
Michela ha lottato si, ma contro le ingiustizie e le discriminazioni, sino all’ultimo giorno.
Ci mancherà immensamente.
Adiosu Michela, ma i sardi sanno che adiosu è un arrivederci, non un addio.
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