Diritti
8 marzo, la festa dell’ipocrisia nell’Italia maschilista
Ve lo confesso, per me l’8 marzo è una festa sempre più insopportabile. Ogni anno che passa cresce in me la sensazione che sia solo una sorta di contentino culturale. Un’occasione per sentirci un po’ coccolate (domando: ma ci basta davvero così poco, un rametto di mimose o una scatola di dolci, per sentirci coccolate???); una scusa per ritrovarci con il gruppetto di amiche e rispolverare le solite battute trite e ritrite sulla superiorità femminile (del tipo: “Dio creò prima l’uomo e poi la donna: prima lo schizzo e poi l’opera d’arte”). E finita la festa, assolto l’obbligo di rivendicare trattamenti più giusti e maggiori attenzioni dai partner, si torna a casa, mansuete, alla routine di tutti i giorni.
Sarà che ho sempre trovato nauseante l’odore delle mimose, sarà che l’Italia non ha più nemmeno un ministero per le pari opportunità (abbiamo un dipartimento, per giunta senza una guida da quando la deputata Giovanna Martelli si è dimessa), ma non riesco a capire cosa ci sia da festeggiare…
Mi capita anzi di pensare che la festa della donna, come altre feste dedicate ai più “deboli” o diversi (i bambini, gli infermi e i meno abbienti, con il Natale; i “folli” e le persone dalla diversa sessualità, con il Carnevale), sia solo una valvola di sfogo per tenerci buone per i rimanenti 364 giorni dell’anno. In fondo negli Usa, dove le polarizzazioni sociali e razziali sono terribilmente forti, esistono persino il Martin Luther King Day e la Giornata dei Veterani (e si sa: neri e veterani non se la passano granché bene, nella Terra delle opportunità…).
D’altra parte, cosa c’è esattamente da festeggiare quando in Italia una donna viene ammazzata da un uomo ogni tre (3) giorni? Quando c’è ancora chi nega la specificità del femminicidio, dell’uccisione di donne da parte dei loro partner o ex partner? Che c’è da festeggiare quando ci troviamo ancora a dibattere sulla “condizione della donna” o la “questione femminile” (etichette che sanno di muffa e che ricordano altre “questioni” eternamente irrisolte: ad esempio la “questione palestinese”, o quella meridionale…)?
Mai che venisse in mente a qualcuno di lanciare un nuovo campo di studi, quello della “questione maschile”, per scoprire ad esempio cosa spinga gli uomini italiani a essere tra i meno collaborativi nei lavori domestici (anche se di questo sappiamo che possiamo ringraziare tante mamme che li hanno educati così, alla faccia della solidarietà femminile verso le future nuore), o alcuni di loro (troppi) a stalkerizzare le donne che li rifiutano o li lasciano.
Vogliamo davvero accettare un rametto di mimose e fare festa quando il governo Renzi annuncia con orgoglio la partenza della sperimentazione del braccialetto anti-stalker su 25 coppie in un paese di 60 milioni di abitanti? 25???? Stiamo parlando di un gingillo che in Spagna ha il 100% di efficacia, ed è applicato su quasi 800 coppie (numeri ben diversi, in un paese che ha 15 milioni di abitanti in meno).
Vogliamo fare festa quando il talento di troppe italiane viene sprecato, come si desume dal fatto che le italiane sono meno del 50% della popolazione attiva? Quando a tante impiegate viene “offerto” il part-time dopo la maternità? Quando continuiamo a essere discriminate sul lavoro, e a essere pagate meno dei nostri colleghi maschi, il tutto sempre per la stessa ragione, cioè il fatto che facciamo figli? Cosa festeggiamo quando il lavoro irregolare è una questione più femminile che maschile, con le relative conseguenze a livello di contributi?
Davvero vogliamo festeggiare quando tante, troppe donne, ossessionate dal loro aspetto, si piegano alla frustrazione delle diete dimagranti e a spendere centinaia di euro l’anno in creme anti-cellulite, perché l’impietoso bombardamento pubblicitario ha fatto loro il lavaggio del cervello? Per ogni donna complessata del proprio corpo, quanti sono gli uomini terrorizzati al pensiero di non trovare una donna a causa della pancetta, oppure ossessionati dall’emulare gli addominali di Cristiano Ronaldo?
Penso proprio che ci sia ben poco da festeggiare per l’8 marzo. Penso anche che in Italia siano stati fatti dei passi avanti verso l’uguaglianza tra donne e uomini, ma che siamo fermi allo stesso punto da troppo tempo. Altrimenti non ci sarebbero così tante donne costrette a ricorrere agli aborti clandestini a causa del numero spropositato di medici “obiettori di coscienza”. Parliamo del 70% tra i ginecologi, di quasi il 50% degli anestesisti e del 45% del personale medico secondo i dati del Ministero della salute (qui, a pagina 29, i dati per regione). In sostanza, nel ‘78 maschi hanno ceduto e permesso alle italiane di abortire, ma si sono garantiti la possibilità di continuare ad avere il controllo del nostro corpo, ad esempio rifiutando di praticare un aborto (ci sono anche donne obiettrici di coscienza, lo so, ma nel ‘78 i ginecologi erano soprattutto maschi).
E pure noi donne dobbiamo cambiare. Cambiare comportamento, cambiare dialettica. Tanti uomini dedicano la maggior parte del loro tempo e delle loro energie alla carriera, o a fare cose che li facciano ricordare, mentre la maggior parte delle donne è spinta a occuparsi delle “piccole, grandi cose di ogni giorno” come tenere pulita e ordinata la casa. Certo, sappiamo bene che le donne possono fare tutto grazie alla loro intelligenza e a una straordinaria capacità di adattamento. Ecco perché nell’ultima guerra alcune di loro hanno persino combattuto (ad esempio nell’Armata Rossa o tra i partigiani di Tito) e moltissime, all’Ovest come all’Est, sono riuscite a prendere il posto dei loro uomini in fabbrica (per poi riadattarsi ad essere chiuse in casa una volta tornati i maschi dal fronte). Però questa grande capacità di adattamento ci si ritorce contro quando in troppe rinunciano ai loro sogni o a realizzarsi sul lavoro per dedicarsi a tempo pieno (o quasi) alla famiglia e al mantenimento della casa (il 72% delle ore per la cura dei figli è a carico delle donne).
Chiariamo: senz’altro ci saranno donne contentissime di occuparsi a tempo pieno della loro famiglia, e ne hanno ogni diritto; ma sono certa che non tutte le donne che si trovano con un lavoro part-time (o disoccupate) per il solo fatto di aver messo al mondo dei figli, siano pienamente soddisfatte della loro vita. In fondo ci sono pure uomini che scelgono liberamente di occuparsi di casa e figli, ma in numeri nettamente inferiori. Ergo, o si sta postulando un’ineluttabile e profondissima differenza biologica tra i sessi (del tipo l’esistenza di un gene della maternità nel DNA femminile versus l’inesistenza di un gene della paternità in quello maschile), oppure c’è qualcosa di profondamente sbagliato nella nostra società.
Ci martellano con l’aut aut “O la famiglia o il lavoro” (che per gli uomini non esiste affatto) e non stupisce che moltissime donne alla fine si conformino a questo diktat di senso comune. Quello stesso, insulso senso comune infarcito di stereotipi (perpetuati troppo spesso dalle stesse donne) secondo cui “le donne sono più portate a prendersi cura dei figli (e dei mariti, e degli anziani della famiglia, e della casa e del cane, e chi più ne ha più ne metta)”; “le mamme sono più brave dei papà a capire i bisogni dei bimbi”; e infine “le donne danno la vita”. Sono tutte balle, l’ultima su tutte, e dobbiamo piantarla di crederci e raccontarle. La donna non dà la vita. È vero che il carico della gravidanza e del parto spetta alle donne (e non c’è da minimizzare su quanto sia gravosa questa parte), però la realtà è che senza il contributo maschile alla riproduzione la donna non dà un bel niente.
Continuare a ripetere il contrario non fa che danneggiarci, perché consolida sempre più quello stesso stereotipo che sta alla base della discriminazione salariale, ad esempio. Dietro la celebrazione del nostro ruolo biologico prospera l’ideologia secondo cui la realizzazione massima per una donna è la maternità, e che riduce la donna a un essere predestinato a essa. Beh, notizia flash: una donna è biologicamente predestinata alla maternità quanto un uomo lo è alla paternità. Il fatto che ci carichiamo della gravidanza per 9 mesi non significa che gli uomini non abbiano alcun ruolo nella genitorialità, anzi.
Non possiamo riunirci l’8 marzo per lamentarci di come siamo trattate, dello stipendio più basso del collega maschio con meno titoli di studio di noi, di tutto il lavoro domestico e della cura dei figli che grava quasi interamente sulle nostre spalle, se poi continuiamo a perpetuare stereotipi del tipo “figli roba della mamma”. È comprensibile che ci rifugiamo in questa retorica per consolarci un po’ dalla sofferenza che ci causa una società indifferente se non addirittura ostile, che non ci aiuta minimamente a raggiungere né a perseguire la nostra realizzazione personale. Però così continuiamo a fotterci con le nostre mani. Invece di mimose esigiamo più fatti. Dagli uomini e da noi stesse.
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