Diritti

La giornata internazionale dei diritti umani. Il giorno che non c’è

3 Dicembre 2023

Perché il 10 dicembre, il giorno della Dichiarazione universale dei diritti umani non è mai entrato nella coscienza pubblica? Perché quel giorno ai più non dice assolutamente nulla o non evoca assonanze?

Vale la pena chiederselo, credo, in questo 75° che, come ogni anno, passerà sostanzialmente in silenzio. Un altro segno del «lungo inverno della democrazia» in cui siamo calati.

A quindici anni dalla prima edizione Marcello Flores è ritornato sul suo Storia dei diritti umani (il Mulino) e lo ha riscritto.

Scelta opportuna. A differenza di molti altri interventi di aggiornamento, questa volta il tema non è che la sintesi precedente non era più attuale perché la realtà è andata avanti. La realtà attuale è tornata indietro e questo rende certamente non solo importante, ma indispensabile e non ovviabile tornare a ripensare la stagione dei diritti, quale sembrava fosse ormai il tempo inaugurato con la fine della guerra fredda.

Ci sono molti temi su cui Flores non interviene nella prima parte di questo libro e che ancora mantengono la loro freschezza inquietante per noi.

Per esempio l’osservazione del tema al centro Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. In un tempo in cui almeno in Italia (ma non solo qui credo) torna il fascino di “gettare la chiave” una volta catturato il colpevole, l’esortazione a separare definitivamente il delitto e la sua punizione dall’idea di peccato e di una sua espiazione non è un richiamo né formale, né scontato. Anzi.

Oppure la questione della mancata emancipazione dei neri. Avviata con l’avvio del processo rivoluzionario francese nel 1789, parallelamente dell’emancipazione degli ebrei, mentre la seconda arriva in un qualche modo a una soluzione, la prima di fatto imbocca una «voie de garage» fino a perdersi definitivamente.

Oppure la questione campi di concentramento, più in generale quella relativa al trattamento del corpo del nemico, esperienza su cui Kafka Nella colonia penale aveva già intuito molto non perché fosse un veggente, ma perché leggeva la realtà. Una realtà già presente, quella dei campi, a fine Ottocento e che la Prima guerra mondiale consolida come ci ha spiegato molti anni fa Andrzej J. Kaminski.

È con la fine della Seconda guerra mondiale che inizia a porsi concretamente una dimensione di diritti universali dell’umanità. Flores ricostruisce attentamente e dettagliatamente come avvenga quella scoperta nella seconda metà degli anni ’40 e come, nonostante il tasso alto di conflittualità e di diffidenza indotte dalla “guerra fredda” nessuno voglia venir meno a quel patto o «sfilarsi» anche formalmente da l vincolo rappresentato dall’aver formato la dichiarazione universale. Sono gli anni delle violenze nel processo di decolonizzazione che vede soprattutto la Francia violare sistematicamente i fondamenti della carta (il caso algerino soprattutto). Ma anche la realtà di persecuzione in Urss non è da meno e lo stesso si potrebbe dire per gli Stati Uniti nei tempi del maccartismo.

Questo, tuttavia, non arresta il processo di generalizzazione del diritto: tra 1951 e 1957 seguito dalla convenzione sui rifugiati (1951); La Convenzione sui diritti politici delle donne (1952); poi la convenzione degli apolidi (1954); poi la Convenzione che dichiara abolita la schiavitù (1956); poi la dichiarazione che tutela la cittadinanza delle donne in caso di divorzio (1957).

A specchio si potrebbero considerare le molte violazioni dei diritti nel trentennio successivo, ma anche la crescita di tutti i movimenti per la parità dei diritti (a cominciare dal movimento contro la segregazione razziale negli Stati Uniti fino alla promulgazione del Civil Rights Act (2 agosto1964).

Gli anni ’70 sono gli anni della dichiarazione di Helsinki, della convenzione dei diritti dei rifugiati (in seguito alla necessità di dare una o statuto e di dotare di diritti tutti coloro che fuggono dai regimi genocidiari – a cominciare dalla Cambogia degli Khmer rossi e poi dei boat people in fuga dal Vietnam. Una storia che Roland Joffé porterà sugli schermi nel1984 con Urla nel silenzio e che proprio in forza del film diventerà impossibile eluderla.

Gli anni ’90 sembrano avviati a promuovere una nuova stagione dei diritti. Così sembra alludere il crollo del Muro e su quella immagine sembra agire la conferenza di Vienna (14-25 giugno 1993)  che riconferma l’universalità e l’inscindibilità di tutti i diritti dell’uomo.

La realtà è molto diversa e proprio in quegli anni (Rwanda, ex Jugoslavia) si assiste a una ripresa delle politiche genocidiarie e sterminative.  Certo nello stesso tempo si dissolve l’apartheid in Sudafrica. A molti sembra che stia inaugurandosi un nuovo tempo. Eppure se ci collochiamo in questo nostro oggi il Sudafrica si configura come un’eccezione.

Inizia quel trentennio in cui ancora siamo immersi

Quale, infatti, lo stato di salute dei diritti umani al momento dell’ingresso nel XXI secolo?

Piuttosto incerti, comunque tendente all’incerto. La tendenza non è per “più libertà e più diritti”.

L’ultimo rapporto annuale prodotto da V-Dem Institut relativo alle condizioni di democrazia al livello internazionale (datato primavera 2023) dal titolo significativo Defiance in the Face of Autocratization, mostra che il 72% della popolazione mondiale vive adesso in regimi  autocratici. Una crescita del 46% rispetto a dieci anni fa mentre il livello di democrazia goduta dal cittadino globale è tornata ai livelli del 1986, ovvero antecedente alla caduta del Muro.

Soprattutto è tornato a crescere il tasso di povertà. Il che significa che i diritti, le opportunità di crescita e di avanzamento sociale sono conseguenti a dove si nasce e si vive e a quale ceto sociale si appartiene all’atto della nascita. In breve, dal punto di vista della struttura della piramide, delle opportunità di ascensione sociale siamo tornati ad essere prossimi a una condizione di ancien régime.

Insieme non riusciamo a trovare un punto d’incontro tra diritti individuali, rispetto dei diritti sociali, o salvaguardia dei diritti di gruppo in relazione ai credi religiosi. Anzi come spesso i conflitti siano inaspriti.

E del resto è sufficiente considerare le condizioni sociali dei migranti, ma anche i muri di non comunicabilità tra ceti in conseguenza dei grandi flussi migratori.

Sui capisce allora come e perché quella che è considerata la sfida di futuro – la sostenibilità e i progetti di ridefinizione di consumi e stili di vita che ci dovrebbero coinvolgere collettivamente – faccia molta fatica a farsi strada nei comportamenti collettivi.

Il prossimo 10 dicembre – il giorno della Dichiarazione universale dei diritti umani – anche quest’anno è facile prevedere che sarà solo «una giorno qualsiasi».

Per certi aspetti quei diritti, o quella domanda di diritti ci sembrano un ingombro, un dettato di norme, valori, temi che appartengono a un mondo finito, frutto di una filosofia politica “occidentalista”. Un mondo a cui qualcuno guarda con nostalgia e qualcuno crede che non lo riguardi perché fa parte della propaganda del nemico imperialista.

Una conferma del «lungo inverno che ci aspetta».

 

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