Cronaca
Stato oligarchico e la bramosia della fame del potere
Con il ritorno del neoindividualismo e l’affermarsi di un neoliberalismo ad impronta utilitaristica, la libertà viene prevalentemente coniugata in modo da vanificare la giustizia sociale.
“If there is anyone out there who still doubts that America is a place where all things are possible, who still wonders if the dream of our founders is alive in our time, who still questions the power of our democracy, tonight is your answer”.
Incipit del discorso di Barack Obama del 4 Novembre 2008 dopo la vittoria alla presidenza degli Stati Uniti. Poi continua:
“Qualcosa sta accadendo. Qualcosa sta accadendo quando americani giovani d’età e spirito, che non hanno mai partecipato alla politica prima d’ora, partecipano con numeri mai visti finora, perché nei loro cuori sanno che questi tempi dovranno essere diversi.
Qualcosa sta accadendo quando le persone non votano solamente per il partito a cui appartengono, ma per le speranze che hanno in comune”.
Che significa potere, per me potere ha sempre significato essere capace di, eppure la parola potere ha assunto una connotazione negativa perché spesso viene identificata col dominio.
Può esistere un potere che non sia partecipato, democratico, che non contempla la libertà, la democrazia, l’uguaglianza e lo stato di diritto?
Nel mito platonico della generazione del mondo raccontato nel Protagora, gli dei affidano a Prometeo e a Epimeteo il compito di assegnare le facoltà a ciascuna stirpe mortale. Epimeteo, che non era molto sapiente, non si accorge di aver esaurito tutte le facoltà con gli animali e di aver lasciato l’uomo nudo scalzo, scoperto, inerme. Prometeo per offrire all’uomo uno strumento di salvezza ruba a Efesto e ad Atena il fuoco e l’arte di servirsene. Gli uomini aveva acquisito la sapienza tecnica, ma erano ancora sprovvisti di quella politica che risiedeva presso Zeus per cui anche se cercavano di raccogliersi insieme si facevano ingiustizie. Zeus, pertanto, incarica Ermes di portare a tutti gli uomini – diversamente da come aveva fatto per le altre arti – Aidos e Dike: il rispetto e la giustizia eterna “principi ordinatori di città e legami produttori di amicizia “.
Nel racconto platonico, l’arte politica consiste nell’esercizio di rispetto e giustizia, pilastri fondanti della convivenza civile, chi non sa parteciparne è un male della città.
Il binomio democrazia e giustizia sociale va oggi reinterpretato alla luce delle nuove condizioni socio-culturali, quali la globalizzazione, la multiculturalità.
Con il ritorno del neoindividualismo e l’affermarsi di un neoliberalismo ad impronta utilitaristica sembra, però, che il pendolo della storia si stia posizionando all’estremo opposto delle esperienze collettivistiche: all’interno di vari Paesi e nel mondo in genere, la libertà viene prevalentemente coniugata in modo da vanificare la giustizia sociale. La democrazia – intesa come agire di un popolo che concorre liberamente e responsabilmente al bene comune – non può, però, fare a meno né dell’una né dell’altra. Libertà e giustizia sociale sono chiamate ad armonizzarsi tra loro, in un mutuo potenziamento. Perché nel mondo sia offerta a tutti gli uomini la possibilità di crescere più liberi e responsabili, occorre superare le ingiuste disparità nell’accesso ai beni fondamentali (vita, cibo, acqua, salute, istruzione, lavoro, certezza dei diritti), nella distribuzione dei ruoli, delle cariche, dei meriti, del reddito e della ricchezza. Occorre che tutti siano messi nella condizione migliore per poter contribuire, tramite solidarietà – altro versante importante della giustizia sociale, sovente dimenticato –, alla realizzazione del bene comune nazionale e mondiale. Parimenti, la giustizia sociale – intesa sia come insieme di istituzioni giuste sia come vita virtuosa dei popoli
non può realizzarsi se questi sono privati della libertà religiosa e di quella di libertà di espressione, resi passivi e deresponsabilizzati rispetto alla gestione partecipata della cosa pubblica.
Aristotele definiva l’uomo come un animale politico, ovvero un essere che, per rimanere tale, aveva bisogno di vivere e interagire con gli altri uomini tuttavia questa convivenza non è sempre pacifica, ma caratterizzata dal conflitto e dalla limitazione delle libertà altrui. Tale conflitto aumenta quando l’altro è percepito come minaccia ne è una testimonianza la persecuzione degli ebrei durante la seconda guerra mondiale: l’ebreo era visto come altro dalla nazione tedesca, per questo pericoloso e quindi questa diversità esige una rimozione dell’altro. Ma a parte i grandi casi storici l’altro e la paura dell’altro è avvertita psicologicamente da ognuno di noi anche nella vita quotidiana e molti grandi letterati ed artisti si sono “ispirati” a questo sentimento dell’altro nelle loro opere come quel narciso che specchiandosi nello stagno si innamorò della propria immagine rifiutando tutto ciò che lo circondava rinchiudendosi nella propria immagine. Anche nell’Odissea Ulisse affronta varie peripezie che sono per lo più rappresentate dal diverso, dall’altro, egli stesso nelle terre in cui approdava rappresentava lo sconosciuto, lo straniero e per questo che Nausica gli dice che seppur straniero: “non sembri uomo stolto o malvagio”. Camus nella sua opera, “Lo straniero”, è l’emblema del suo spiccato senso della giustizia, per la continua lotta, letteraria e non, per il raggiungimento della correttezza, della moralità, del trionfo dei deboli su una società opprimente.
Sembra oggi riaccendersi un sentimento arcaico che ha alimentato la vita dei popoli fin dall’antichità: la paura dell’altro, dell’ignoto, “del diverso da noi”, di quello che Escobar chiama “contaminazione”, ossia la paura dell’invasione da parte dell’esterno, di ciò che non conosciamo, dei nostri confini, del limite che abbiamo posto nel nostro immaginario collettivo culturale tra “noi” e “gli altri”.
In nome di una mal concepita sicurezza si limita la libertà, nel caso Open Arms, l’allora ministro dell’interno Salvini, ricorse alla sua vecchia tattica, facendo ostruzionismo e pressioni sulle autorità locali, e utilizzò i nuovi poteri del “decreto sicurezza bis” per vietare l’ingresso nelle acque territoriali italiane e il successivo sbarco dei migranti. Provocò consapevolmente l’illegittima privazione della libertà personale dei predetti migranti.
Il caso Salvini rientra in quello che mi azzarderei a definire una manipolazione politica della paura. Infatti, come la storia ha spesso mostrato, l’esigenza di sicurezza, abilmente narrata, può divenire lo strumento per giungere al diverso fine, cui spesso mirano i detentori del potere, per accrescere il loro dominio, della limitazione della libertà degli individui. Un limpido esempio della concezione della paura come elemento intrinsecamente normativo, e quindi in grado di regolare e orientare la costruzione del legame sociale, si trova nel pensiero di Thomas Hobbes.
Lungi dall’essere relegata nel cantuccio delle passioni irrazionali da
allontanare e neutralizzare, la paura, per Hobbes, è una passione fredda, costruttiva, civilizzatrice, fondamentale per il calcolo geometrico-politico che può indurre alla pace.
Nella sua Autobiografia Hobbes racconta della propria nascita prematura causata,
a quanto pare, dal terrore provato dalla madre per l’imminente arrivo in
Inghilterra dell’‘Invincibile Armada’ spagnola.
Questo diretto riferimento alla paura rimanda certamente al carattere fondativo della
passione della paura rispetto all’impianto politico-istituzionale della
teoria hobbesiana dello Stato. Allo stesso tempo, però, rischia di condurre a un fraintendimento. Se tale passione fosse paragonabile al terrore provato dalla madre di Hobbes di fronte al pericolo dell’invasione spagnola, essa si risolverebbe in un elemento paralizzante, che ostacola qualsiasi movimento, qualsiasi calcolo e qualsiasi ragionamento. Quando si è in preda al terrore, infatti, non si ragiona.
Al contrario, seguendo lo sviluppo della riflessione hobbesiana sulla paura, e tenendo conto del ruolo che essa gioca nella costruzione del dispositivo di legittimazione
dell’esercizio del potere politico, si comprende come, nella cornice
dello stato di natura, la paura sia tutt’altro che una passione raggelante
proprio perché distinta dal terrore. Hobbes definisce anche cosa è il terrore o, per essere più precisi, il terrore-panico, emozione in cui l’elemento razionale pare scomparire. Di fronte al terrore non si può pretendere il calcolo dell’uomo, non si può coltivare l’aspettativa della lungimiranza. Il terrore è privo di ragioni e proprio per questo paralizza. Equivale ad un’emozione che interrompe qualsiasi movimento autonomo, volontario e individuale. Hobbes scrive:
“Così tutti gli uomini, e specialmente coloro che vedono
troppo in là, si trovano in una condizione simile a quella di Prometeo:
infatti, come Prometeo (nome che tradotto significa
l’uomo prudente) era
incatenato sul monte Caucaso, luogo da cui si gode un’ampia vista e in
cui un’aquila che si nutriva del suo fegato ne divorava di giorno quanto
ne ricresceva durante la notte, così quell’uomo che, preoccupato del
futuro, guarda troppo avanti a sé, ha il cuore tutto il giorno roso dalla
paura della morte, della povertà o di altre calamità e non trova quiete”
Nel celebre discorso “Sui principi del governo rivoluzionario” Robespierre tratta il tema delle virtù con tutta la sua radicalità politica, fino ad apparentarsi col Terrore:
“La funzione del governo è quella di dirigere le forze morali e fisiche della nazione verso la meta della sua istituzione. Il fine del governo costituzionale è di conservare la Repubblica: mentre quello del governo rivoluzionario è di fondarla. In un regime costituzionale è sufficiente proteggere gli individui contro l’abuso del pubblico potere: sotto il regime rivoluzionario il pubblico potere stesso è obbligato a difendersi contro tutte le fazioni che lo attaccano”.
Anticipando il detto maoista secondo cui “la rivoluzione non è un pranzo di gala”, Robespierre scrive: fondare la Repubblica non è un gioco da bambini, non può essere l’opera di un capriccio o di un’apatia, né il risultato fortuito dell’urto delle pretese particolari”.
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