Criminalità
Il Virgilio, Ostia, il moralismo dei giornali e la cronaca che muore
Muore Totò Riina; quotidiani e tg aprono le edizioni con grandi titoli sulla mafia, ed è giusto così. Ma poi c’è anche il Corriere della Sera che, proprio sotto il titolone dedicato a Cosa Nostra, decide di raccontare dell’atteggiamento «intimidatorio e mafioso» di una presunta «cricca» romana. E no, non è Ostia e neppure Mafia-Capitale: è soltanto la storia di un gruppo di ragazzini di un liceo del centro. Intervistata, la preside di quella scuola arriva persino a dire che a volte vorrebbe trasferirsi «nelle scuole dove ci sono i figli dei camorristi. Almeno – spiega – lì saprei con chi ho a che fare». La sproporzione nell’uso di certe parole, soprattutto in un giorno così particolare, dovrebbe essere evidente a tutti; purtroppo non è stato così.
Al di là della vicenda in sé – la quale però, dopo che persino la Questura ha smentito l’esistenza di «atteggiamenti violenti ed intimidatori da parte degli studenti», meriterebbe, adesso sì, una seria inchiesta giornalistica – qui interessa soprattutto il modo con il quale questa storia è stata raccontata dai giornali. Quel racconto è infatti la testimonianza di un atteggiamento oramai piuttosto radicato in molta stampa italiana la quale sembra aver smarrito il senso dell’uso delle parole. Infatti, se tutto è mafia – Totò Riina e un gruppetto di ragazzini allo stesso modo – nulla è davvero mafia. Una cronaca appiattita su parole ridotte a slogan finisce per produrre un racconto di maniera il quale non racconta più nulla del mondo. Di questo genere di racconto si può anche fare a meno. È ciò che i lettori hanno capito da tempo. E i dati catastrofici di vendita dei quotidiani son lì a dirlo.
Se si è arrivati a tanto, è anche perché qualche tempo fa si è smesso programmaticamente di raccontare le cose del mondo, finendo per raccontare soprattutto il potere. Tante sono le cause. Ne hanno scritto in molti. Su tutti, e in più occasioni, Umberto Eco; poi, Enzo Forcella con il suo bellissimo Millecinquecento lettori; più di recente, Filippo Ceccarelli, in modo più laterale e divertito. Non c’è molto da aggiungere, se non qualcosa sugli ultimi anni, perché è proprio a partire dai primi anni Novanta del Novecento, quelli di Mani Pulite, che la cronaca e il lavoro di inchiesta cedono il posto a un altro genere giornalistico, il retroscena, e parallelamente inizia una rimodulazione del rapporto dell’informazione col potere che si fa sempre più stretto e squilibrato.
Sulle pagine si affacciano sempre più massicciamente spifferi di Palazzo, brogliacci, verbali. Sembra che il lettore, attraverso la lettura di un verbale riportato pedissequamente dai giornali, possa essere immerso dentro la notizia senza più filtri né mediazioni. Sembra una rivoluzione. È invece l’esatto opposto. Per farsene una idea, basterebbe chiedersi chi dirige il traffico, chi sceglie quali verbali far uscire e quali spifferi lasciar trapelare. Ecco: per lo più, sono le fonti a stabilirlo, se non altro perché sono le fonti che conoscono a fondo il contesto. Insomma, sostituendo lo spazio della cronaca con il retroscena e rarefacendo sempre più il tradizionale lavoro di inchiesta giornalistica, i giornali si sono disarmati e consegnati alle fonti, quindi al potere.
L’informazione quotidiana ha così iniziato a funzionare secondo nuove regole, che son quelle della comunicazione se non addirittura del marketing. La cronaca tradizionale – ossia l’autonomo resoconto della realtà – è invece sempre più ridotta a semplice abbellimento del retroscena. E la disabitudine alla cronaca – al di là del pericoloso abbraccio del potere – facilita la trasfigurazione dell’informazione in qualcosa di diverso e inquietante.
Il dilagare delle opinioni in danno della cronaca trasforma persino la scrittura dei quotidiani: si afferma l’uso della prima persona, gli articoli sono scritti sempre più come editoriali, si accentuano i toni moralisticheggianti quasi si fosse a scrivere un’omelia o la requisitoria di un pm. E anche per questa strada si allenta il rapporto con la realtà e si finisce per ripiegare, come si diceva, sul racconto di maniera che racconta poco o nulla. Un esempio di ciò si è avuto con la vicenda di Ostia e l’aggressione criminale ai danni di un giornalista della Rai.
D’improvviso Ostia quasi diventa la Palermo degli anni Ottanta o la Scampia di vent’anni dopo. Ovunque, e per un paio di giorni, dilaga un racconto stereotipato che utilizza altri stereotipi elevati a termine di paragone, mentre la realtà sotto quei cliché soffoca e scolora poiché ogni cosa viene raccontata come se l’una fosse sovrapponibile all’altra: Tor Bella Monaca come Scampia, Corviale come lo Zen, San Basilio chissà.
La realtà è invece un fatto complesso. Raccontare questa complessità naturalmente non significa sostenere che a Ostia la criminalità sia meno criminale che altrove, eppure si è preferita l’estrema e rassicurante semplificazione, forse perché non si conosce la realtà che si pretende di raccontare la sera in tv o il giorno dopo sul giornale, forse perché quella realtà è da molto tempo che non la si racconta più e si son persi gli strumenti per farlo.
E allora – se è consentita una auto-citazione da un articolo scritto tempo fa – «la sensazione è che i giornali non li si legga più soprattutto perché sono diventati arroganti e davvero poco interessanti giacché se la realtà t’assedia – una realtà che sta trasfigurando il mondo che conoscevamo, che sta esaurendo ogni punto di riferimento al quale abbiamo provato e ancora proviamo ad aggrapparci per non affondare anche noi – se insomma accade tutto questo e tu la realtà non la osservi e non la racconti, preferendogli l’ultimo sospiro dell’ultimo dei parlamentari, ecco che allora finisci per collocarti fuori dalla realtà, asserragliato nei tuoi quartieri, irreali anch’essi e assediati da un mondo che alla fine rischia davvero di farsi brutto sporco e cattivo e ti si divora. Difficile, allora, pretendere d’improvviso di raccontare la periferia, magari affidandosi alla firma di chi – pur grande firma – non ne conosce la geografia né le facce, ché mai, prima d’esservi spedito per il pezzo, si erano attraversate quelle strade infami d’una città che a loro non sembra la stessa nella quale essi stessi abitano». Difficile, alla fine, anche pretendere ancora d’esser presi sul serio dai lettori.
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