Criminalità

Terrorismo in Europa: un triplo fallimento istituzionale

15 Gennaio 2015

Vista da Parigi, la reazione italiana ai fatti di Parigi sconcerta nel suo provincialismo. Innanzitutto la corsa a dissociarsi dal “Je suis Charlie”: non sia mai di essere presi per dei conformisti! Poi un’infinità di commenti fuori luogo sulla libertà di stampa e di satira all’indomani della morte tramite kalashnikov di un gruppo di scrittori e vignettisti. Dimostrazione del fatto che in Italia, nonostante Napoleone, la rivoluzione francese non è mai arrivata, e che il maggio parigino ha forse contagiato qualche anima, ma non è mai stato qualcosa di maggioritario, perfino all’interno della generazione che ha fatto il ‘68. Infine le analisi sulle cause degli attentati, completamente fuori fuoco perché centrate sulla religione degli assassini e sul loro movente dichiarato e superficiale, invece di andare a studiare il contesto sociale ed economico dove sono cresciuti i terroristi e dove è maturato il loro odio.

È quest’ultimo il tema che è necessario approfondire. Non per “trovare giustificazioni”, cosa di cui mi rimproverano gli amici di banlieue, che rivendicano di “avoir réussi”, avercela fatta, per usare un’espressione tipicamente francese, attraverso lo studio e il lavoro.

No, è necessario occuparsi di questo tema per il futuro, per evitare nuovi fratelli Kouachi, per evitare che il Front National vinca le elezioni del 2017, per costruire la famosa Europa dei popoli da contrapporre o forse affiancare a quella delle banche.

In questo contesto le figure degli attentatori di Charlie Hébdo, di Montrouge e della Porte de Vincennes sono altamente rappresentative ed esemplificative. Esemplificative di un fallimento, o quantomeno di una falla, presente nelle istituzioni repubblicane, in Francia come in Italia.

Istituzione numero uno: la scuola.

In teoria “l’école républicaine”, il luogo dove si costruisce l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. In pratica un luogo sempre più demunito di risorse, dove i ragazzi vengono parcheggiati fino alla fine dell’obbligo scolastico per poi essere scaraventati nel mondo. Senza alcun senso di cittadinanza, di comunità, di etica dello stare insieme. Ma anche senza una vera formazione al mondo del lavoro, quello vero, quello che se ne frega dei diplomi e vuole vedere le competenze e la determinazione, il senso etico e la capacità di lavorare in gruppo.

Per supplire a questo fallimento non serve una “revisione in chiave laica dei programmi” come quella annunciata martedì da Valls in Francia – e che molti reclamano da tempo in Italia. Servono soldi, tanti soldi. Innanzitutto per attirare verso l’insegnamento le menti più brillanti, gli studenti migliori. Se chi ha competenza e professionalità trova più economicamente conveniente andare a lavorare nel privato e seguire un altro tipo di carriera, ad accontentarsi dei poco attraenti salari degli insegnanti saranno gli studenti più mediocri.

E il risultato è sotto gli occhi di tutti: nella laicissima, multiculturale, aperta metropoli di Parigi, secondo i dati del Ministero dell’Istruzione, il 30% degli studenti frequenta scuole private. Che nella stragrande maggioranza dei casi sono cattoliche. Un ragazzo su tre, dalla materna al liceo, non frequenta la scuola pubblica. Chi se lo può permettere cerca di evitare che il figlio frequenti scuole di serie B, scuole dove gli insegnanti, per quanto bravi e preparati, non potranno avanzare nei programmi per stare al passo della maggioranza, e cercheranno di evitare le risse più che di trasmettere qualche conoscenza.

E anche per questo servono soldi. Soldi per rivedere in chiave completamente rivoluzionaria la pedagogia, per portare i ragazzi a interessarsi a quello che fanno, che imparano, che vivono a scuola, che è il luogo numero uno di costruzione della socialità, della cittadinanza e in prospettiva del futuro.

Istituzione numero due: il carcere.

Amedy Coulibaly, l’attentatore di Montrouge e del supermercato kosher, lo disse chiaramente intervistato nel 2008 da “Le Monde”: “La prigione è la migliore scuola di criminalità”. E’ lì che, condannato per rapina a mano armata, conobbe Chérif Kouachi, il minore dei fratelli assassini di “Charlie Hébdo”, e Djamel Beghal, il loro “mentore”, in carcere per aver pianificato un attentato contro l’ambasciata americana a Parigi, colui che li portò a poco a poco sulla via del Jihad.

Il carcere dovrebbe essere, secondo le costituzioni europee, francese e italiana in primis, il luogo della riabilitazione sociale, un posto per scontare la giusta pena e poi tornare a far parte della società da protagonisti, completamente riscattati, preferibilmente con una prospettiva di lavoro.

Il confronto di questo ideale con la realtà delle carceri italiane e francesi farebbe ridere, se non si trattasse di una questione drammatica che, tra gli altri effetti, produce morti e violenza.

Siamo sicuri che l’unica cosa da fare, l’unica risposta possibile, sia quella securitaria di Valls, ovvero la creazione di sezioni speciali all’interno delle carceri per sorvegliare gli islamisti? Una risposta del tutto speculare a quella di Sarkozy, che nel 2005 reagì alle banlieue in fiamme con l’esclusivo uso della forza e della repressione. E’ invece necessario ripensare il carcere, capirne il suo senso sociale e politico, per evitare non solo la radicalizzazione di chi ci entra, ma soprattutto per eliminare alla base le condizioni della radicalizzazione, che sia di matrice islamica, neo-fascista o quant’altro: l’estrema povertà, il senso di esclusione sociale, l’odio di classe.

Istituzione numero tre: la città.

Ilda Curti su queste pagine ne ha già parlato, spesso e bene. Mi preme sottolineare un punto, spiegato da Curti in un suo pezzo del 20 novembre, sulla scorta di quanto accadeva a Tor Sapienza. (E sulle analogie tra Tor Sapienza, le banlieue parigine e i fenomeni dell’estrema destra italiana e francese ci sarebbero interi saggi da scrivere).

Il punto è: le periferie non esistono. O forse sì, ma non sono quello che crediamo che siano. Per dirla con Ilda Curti, “la città contemporanea è attraversata da città invisibili, socialmente marginali, latenti rispetto alla città valorizzata. Non è la loro distanza spaziale a determinarne la lontananza ma quella sociale, culturale, istituzionale”.

La megalopoli parigina è un esempio perfetto di quanto qui sopra citato. La compagna di Coulibaly, Hayat Boumeddiene, viene con la sua famiglia di nove persone da Villiers-sur-Marne, periferia est di Parigi, vicina ai ricchi comuni di Saint-Maur-des-Fossés e Vincennes, storicamente amministrati dalla destra. Coulibaly viene dalla Grande Borne a Grigny, il comune più povero e più giovane – in termini di età dei residenti – del dipartimento dell’Essonne, nonché uno dei più poveri di Francia. La Grande Borne è un esperimento di edilizia sociale degli anni ’60, miseramente fallito e al centro degli scontri nel 2005 e poi ancora nel 2008.

I fratelli Kouachi, dal canto loro, sono parigini. Sono nati e cresciuti nel decimo arrondissement, quello delle grandi stazioni. Dopo aver vissuto gli anni delle medie e del liceo in campagna, affidati a un istituto, sono tornati nella capitale, dove sono andati a vivere nel diciannovesimo arrondissement, a dieci minuti a piedi da Montmartre e dal Sacré Coeur.

Eppure tutti loro sono “ragazzi di periferia”, ragazzi cresciuti senza prospettive, senza direzione, senza senso di giustizia, senza senso del bello. Così diceva Bernard Maris, l’economista di Charlie Hébdo assassinato mercoledì scorso in redazione, intervistato nel settembre scorso da Le Monde: «François Mitterrand domandava: “Ma perché l’uomo non dovrebbe avere diritto alla bellezza?” La bellezza è un bene pubblico, e allora perché costruire delle zone miserabili e parcheggiarci dei cittadini declassati per poi stupirsi se votano Front National? L’economista britannico John Maynard Keynes diceva, in un’intervista alla BBC, qualcosa come: “Costruite degli immobili magnifici agli operai e vedrete che diventeranno più intelligenti e raggianti”.» 

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