Criminalità

Sulla giustizia il programma M5S-Lega è di estrema destra, come Davigo

6 Giugno 2018

Anni di Tv dell’indignazione, titoli di giornale sensazionalistici, e migliaia di notizie inventate per fare clickbait su internet hanno reso difficile, se non impossibile, parlare di giustizia penale in termini ragionevoli, rivolgendosi ad un pubblico un po’ più ampio degli addetti ai lavori, ma dopo aver letto ciò che c’è scritto nel programma di governo pentaleghista, è doveroso provarci comunque.

È un dovere perché gli interventi in materia di giustizia penale annunciati dal governo sono irragionevoli nella logica, inefficaci rispetto agli obbiettivi che si prefiggono e profondamente autoritari e pericolosi nella sostanza.
Prendiamo in esame, per prima cosa, la riforma dell’istituto della legittima difesa, invocata dalla Lega come provvedimento-simbolo del cosiddetto nuovo corso. Al riguardo occorre essere chiari: dati alla mano, verificabili con una semplice ricerca sulle banche dati della cassazione, non esiste nessun “poveraccio” che sia stato condannato per essersi difeso da un aggressore, vero o presunto. I processi cui la televisione e la stampa danno così tanto risalto si concludono quasi tutti con l’assoluzione, e i casi di condanna (si contano sulle dita di una mano) si riferiscono ad ipotesi in cui il derubato, invece di difendersi, ha cercato di farsi giustizia da solo facendo il tiro al bersaglio o sparando al ladro in fuga. Annunciare di voler ulteriormente modificare un istituto, già riformato su impulso della stessa Lega nel 2006, può forse far guadagnare qualche voto cavalcando le insicurezze dei cittadini, ma non ha alcuna giustificazione pratica, né tantomeno giuridica.

Allo stesso modo, può far guadagnare voti lo slogan “certezza della pena” ma si tratta, appunto, di uno slogan, declinato rozzamente nella sua accezione “certezza del carcere”, che non rende i cittadini più sicuri e la società più giusta. Come ho detto, cercherò di non usare un linguaggio specifico e argomenti per studiosi, ma ricorrerò a spiegazioni ed esempi che siano il più possibile comprensibili a tutti. Il ragionamento non può che partire dalla nostra costituzione, “difesa” a parole da tutti ma letta e conosciuta da pochi, che all’art. 27 recita: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ciò significa che non esiste solo il carcere come reazione dell’ordinamento di fronte ad un reato e che la rieducazione del condannato è obbiettivo fondamentale ed irrinunciabile del nostro ordinamento penitenziario, non il soddisfacimento di un desiderio sociale di “vendetta” nei confronti del condannato. In applicazione di questo principio, dopo ampia riflessione e confronti con i risultati ottenuti da altri paesi di democrazia liberale, il nostro paese, con la legge sull’ordinamento penitenziario del 1975 e le sue successive modifiche (“legge Gozzini” del 1986), si è munito di una legislazione che consente, all’esito di una valutazione complessiva del tribunale di sorveglianza e ricorrendone i presupposti, di far scontare le pene più lievi (o il residuo di pena) in regime diverso dalla detenzione in carcere. Può darsi che questa cosa risulti insopportabile per una folla irragionevole eccitata da trasmissioni televisive e opinionisti in malafede, ma invito ogni persona dotata di spirito critico a riflettere su fatti concreti, tratti dall’esperienza reale.

Pensate, ad esempio, all’ipotesi, tutt’altro che infrequente, di un imputato tossicodipendente, condannato per reati connessi al suo stato (piccolo spaccio o furtarelli per procurarsi il denaro necessario ad acquistare lo stupefacente di cui ha necessità). Il suo processo giunge al termine, magari dopo dieci anni, nel frattempo ha cambiato vita, è entrato in comunità terapeutica, e cerca di riprendersi. Qual è il vero interesse della comunità in questa situazione, gettarlo in carcere, interrompere il suo percorso riabilitativo, per ritrovarsi un delinquente in più scontata la pena, o agevolare il più possibile il suo reinserimento nella società, riducendo il rischio che possa commettere altri reati in futuro? Credo che la risposta, per ogni persona ragionevole, dovrebbe essere scontata. Badate bene, in questo come in molti altri casi, non si tratta di ingiustificato buonismo, ma di un preciso calcolo utilitaristico per il migliore andamento della società nel suo complesso.
Andiamo avanti e passiamo ad un altro istituto cardine del nostro ordinamento che i nuovi governanti si prefiggono di stravolgere: la prescrizione. Chiariamo subito che si tratta di un istituto che risponde a irrinunciabili principi di giustizia: il diritto dell’imputato ad un processo di ragionevole durata, correlato alla mancanza di interesse da parte della società di punire un individuo per un fatto commesso molto indietro nel tempo. Pensate alle difficoltà di imbastire un processo a distanza di molti anni: la memoria dei testimoni sbiadisce, i documenti si perdono, le prove si deteriorano. È davvero interesse della società iniziare ugualmente un processo dall’esito incerto, a carico di una persona che nel frattempo potrebbe aver cambiato vita e non è più lo stesso individuo che ha commesso il reato?
E ancora: siete mai entrati in un’aula di tribunale? Se lo aveste fatto, avreste imparato che la velocità di un processo, nella gran parte dei casi, è direttamente proporzionale alla prossimità della prescrizione. Bloccarne il decorso al momento del rinvio a giudizio, come è nelle intenzioni, avrebbe come principale effetto allungare indefinitamente i tempi del processo, con il risultato di arrivare a condanne a distanza di molti anni dai fatti, negando giustizia sia agli imputati che alle stesse persone offese. Non solo: dal momento che il nostro paese ha sottoscritto la convenzione europea a tutela dei diritti dell’uomo, che riconosce il diritto delle parti ad un processo giusto e di ragionevole durata, la sostanziale “abrogazione” della prescrizione, con i suoi riflessi sulla durata dei processi, porterebbe a innumerevoli condanne a carico dello Stato, il cui peso economico è già adesso molto alto.

Veniamo adesso alla lotta alla corruzione, che la maggioranza intende attuare con l’inasprimento delle pene (sono state elevate solo pochi anni fa: chi offre di più?) e con l’introduzione del cosiddetto “agente provocatore”, traducendo in pratica le proposte del dott. Davigo, autentico ispiratore delle politiche giudiziarie del governo.
Potrei rispondere invocando i principi di civiltà giuridica su cui si basa ogni ordinamento democratico e liberale, secondo cui devono essere punite le persone che hanno commesso un reato, non le persone che spinte da un agente “sotto copertura” potrebbero commetterlo, espressione questa di un diritto penale che punisce l’individuo per ciò che è e non per ciò che ha fatto, proprio di regimi autoritari e dispotici. Userò, invece, per essere più pratico, esempi e argomenti elementari per meglio far comprendere l’irragionevolezza della proposta. Partiamo anche qui da esempi concreti. Chi potrebbe cadere nella “rete” tesa dall’agente provocatore? Forse il politico o l’alto funzionario incaricato di gestire un importante appalto milionario? Pensate che in questi casi le “mazzette” vengano consegnate in buste e valigette come nei film? Pensate che un politico o un dirigente di alto livello corrotto tratti con il primo venuto? La risposta è no, e la figura dell’agente provocatore finirebbe per essere utilizzata solo per cercare di “beccare” qualche modesto impiegato, il geometra dell’ufficio tecnico che firma la pratica edilizia, o il poliziotto della questura che rilascia il passaporto, dietro il pagamento di una mancetta. Vale la pena stravolgere dei principi di civiltà giuridica che tutelano tutti i cittadini per un obbiettivo, certamente giusto ed auspicabile, ma al tempo stesso modesto e non proporzionato rispetto ai mezzi che si vogliono utilizzare? La realtà è che, se si vuole davvero combattere la corruzione la strada maestra, suggerita dalla parte migliore della stessa magistratura, è quella di ridurre il più possibile i controlli, gli adempimenti, i pareri, l’ingerenza complessiva dello Stato nella vita dei cittadini; nel contempo, occorre rendere più efficiente, veloce, economico il ricorso da parte del cittadino alla giustizia a tutela dei torti che ritenga di aver subito, affinché non debba nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi di seguire una “scorciatoia” invece di rivolgersi al giudice.

Veniamo, infine, al tema che ha permesso al presidente del consiglio di riscuotere in parlamento non solo applausi, ma addirittura cori da stadio, ovvero la lotta alla Mafia. Afferma il presidente di voler colpire le organizzazioni criminali nei patrimoni e nelle attività eco-nomiche che ad esse fanno capo. Non è possibile approfondire in questa sede, non conoscendo i dettagli dei provvedimenti che verranno adottati: è importante, tuttavia, che i cittadini sappiano, al di là della retorica dell’antimafia, che con le attuali normative si sono ripetuti casi in cui sono state sequestrate, per un semplice sospetto, importanti imprese ed attività economiche, per essere affidate in gestione ad autentici comitati d’affari nominati da giudici con pochi scrupoli e con essi collusi. È troppo chiedere prudenza e rigore nell’intervenire su questa materia, per evitare che i disastri economici ed i furti veri e propri commessi in nome dell’antimafia, senza processi e senza garanzie, debbano moltiplicarsi e ripetersi? Io dico di no.
Arriviamo così al compito di un’autentica opposizione liberale, democratica e riformista alle politiche del governo in materia di giustizia, purtroppo quelle che hanno la maggiore possibilità di essere tradotte in atti di governo, sia per la unità di vedute sui punti sia per il relativo costo economico dei provvedimenti annunciati. A mio modo di vedere, questo compito sarà tenere la barra diritta, senza rinunciare, magari per paura, magari per opportunismo (come colpevolmente si è fatto nella legislatura passata) ai principi costituzionali che reggono il nostro ordinamento; parlare ai cittadini con chiarezza, denunciando le mistificazioni di giornalisti e politici in malafede; offrire risposte concrete e adeguate di fronte alle paure, queste sì reali, di larghi strati della popolazione. Un compito non facile, sia sotto il profilo del linguaggio, che delle azioni concrete, ma al quale non possiamo rinunciare in partenza, se non vogliamo subire, senza reagire, una irrimediabile trasformazione in senso autoritario della nostra società.

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