Criminalità
Roberto Saviano a Torino
Con un filmato sulla sua pagina Facebook Roberto Saviano ci informa che inizierà nell’aprile prossimo un corso sulla “crime story”, ossia delle lezioni di scrittura creativa seriale crime per la televisione. Un how do it (così lo chiamava nel suo Controamerica Dwight Macdonald, lo scrittore trotzkista americano che detestava dal più profondo del cuore la cieca manualistica americana, che invece ha trionfato anche da noi, perfino a Casoria), un “come si fa praticamente”, con esplicito rimando alla lettera oltre che allo spirito dei fatti, quella scrittura di immaginazione che ha forte radicamento nella realtà, nella nostra bruciante cronaca.
Saviano non vuole chiamarlo “corso” il suo insegnamento, che terrà alla scuola Holden di Torino (la città del trionfo positivista del veronese Cesare Lombroso e del mantovano Achille Loria) ma “addestramento”, sottolineando gli aspetti fattuali, “positivisti” direbbero i Lombroso dell’800, a ridaje, del crimine. Dice, se vuoi scrivere di crimini e assassini devi sapere quanto pesa una pistola (elemento fattuale), perciò gli studenti saranno portati lemmi lemmi, in esterna, al poligono. D’altronde come parlare di un cadavere e di un omicidio se non conosci l’impatto di un proiettile sul corpo della vittima?, e perciò gli studenti saranno portati tomi tomi, fuori dall’aula sorda e grigia, in visita da medici legali, ecc. Insomma è il trionfo dell’elemento fattuale, della ricostruzione “scientifica” dell’atto creativo della scrittura. L’ebbrezza dell’how do it, il trionfo postumo del positivismo in un Paese come l’Italia dove per secoli ha governato le menti invece l’idealismo più vaporoso e visionario.
Ma Torino è la città anche del più arcigno critico del positivismo italiano, Antonio Gramsci, che una volta in galera, creò una rubrichetta – il suo “inferno” – intitolata “Lorianesimo” (dal positivista Achille Loria, che tra l’altro fu il professore con il quale si laureò Palmiro Togliatti, fatto taciuto a lungo nelle sue biografie) dove scaraventava i suoi diavoli positivisti e sfotteva a sangue le loro trovate, non so, per esempio, la correlazione fantasiosa tra il raddoppio delle consonanti che avverrebbe in montagna e la prevalenza invece delle consonanti liquide che prevarrebbe in pianura, una sorta di inoppugnabile correlazione tra ambiente (milieu lo chiamava il grande Taine, con il quale Gramsci si confrontò raramente preferendogli la sua caricatura comica di Achille Loria) e comportamento umano.
Gramsci polemizzò fortemente con il positivismo che gli appariva una sorta di “nuova teologia materialista” e l’acquiescenza sui fatti come una “forma di misticismo arido e senza scatti di passione dolorante”. Egli rimproverava al positivismo, in realtà, proprio l’ancoraggio ai fatti e i divieti imposti dalla natura (che come noto non facit saltus) mentre lui voleva fare tutt’altro, mettere al centro l’uomo, il suo slancio vitale (vi fu un periodo di bergsonismo ache in Gramsci), la sua libertà di cambiarlo, il mondo, oltre che interpretarlo o spiegarlo. Fargli fare, al mondo, triplici e quadruplici salti mortali in verità. La sua avversione al positivismo fu perciò politico-ideologica, nasceva dalla necessità di consegnare all’azione dell’uomo lo scettro della decisione sul divenire sociale e di non seguire i diktat evoluzionisti imposti dai riformisti, per esempio, di scatenare il “subisso apocalittico” e la “rottura fondamentale” della rivoluzione imposta dalla ferrea volontà dell’uomo che corregge il corso storico e lo indirizza “creativamente” secondo i propri voleri. Aveva un suo senso l’idealismo di Gramsci. Egli voleva intervenire creativamente sui fatti, non descriverli, assumerli acriticamente. (D’altronde sulla scia dell’idealista Hegel poteva dire “tanto peggio per i fatti”. Ricordo che Hegel aveva asserito nella sua dissertazione di abilitazione che non potevano esserci più di sei pianeti, ignorando che un settimo, Urano, era stato scoperto malauguratamente per lui da Herschel nel 1781. Ciò che lo condusse a concludere non senza una certa faccia tosta “Um so schlimmer für die Tatsachen”, che traduciamo con ‘Tanto peggio per i fatti”).
Ora questo Saviano positivista tutto schiacciato sui fatti, parrebbe affiancarsi a quello “idealista” crociano e napoletano. Ma anche a quello, altrettanto idealista, bergsoniano, dello slancio vitale della denuncia. A Torino, il nostro “lorianesco” Saviano contrappone al napoletano idealista che egli era (e ancora è, ne siamo certi) il notomizzatore positivista del crimine. E alla denuncia della criminalità affianca la sua resa splatter, spettacolare. È come la “signora Morli una e due” di Pirandello: alla asciutta cronaca della Camorra che uccide e sgoverna, accosta in un rotear di mantello lo screenplay della Gomorra televisiva che seduce ed esalta. E tutto ciò con elegante destrezza, con il rovesciamento del rovesciamento della “filosofia della prassi”, parrebbe: non si tratta più solo di cambiare il mondo; per intanto, si tratta di interpretarlo, descriverlo, spettacolarizzarlo. Ed è la stessa persona ad assecondare le due apparenti, ancora per noi “idealisti”, opposte istanze.
Gramsci a braccetto con Lombroso. A Torino si può.
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