Criminalità
Quando la Mafia scomparve, per lasciare il campo alla (cosiddetta) Antimafia
“Il giorno in cui, nel 2006, viene arrestato Bernardo Provenzano… ecco, quel giorno inizia l’ascesa di Antonello Montante”.
Dovessi scegliere tra le tante perle che ha regalato un’ora e mezza ad ascoltare Attilio Bolzoni, autore de “Il Padrino dell’Antimafia”, pubblicata da Zolfo come libro d’esordio della casa editrice, guidata da Lillo Garlisi, anche lui siciliano ma di stanza a Milano da un quarantennio, e presentato sabato 16 novembre a Bookcity, pescherei questa. La pescherei perché ci porta davvero in mezzo alla storia: una enorme storia italiana, fatta di politica, giornalismo pigro e giornalismo vero, servizi segreti, ma anche millanterie, carattere italico, resilienza e capacità di adattamento dei nostri peggiori costumi.
Ma andiamo con ordine, per quanto riusciamo. Se no facciamo la fine del merlo parlante – ospite fisso di casa Montante, e poi scomparso – che Bolzoni racconta come protagonista mancato del suo libro.
All’Archivio di Stato – il luogo giusto, per forza – si è parlato di questo libro. Ne ha parlato il suo autore, Attilio Bolzoni, un giornalista tra i più esperti conoscitori, in Italia, delle mafie in generale e di Cosa Nostra in particolare. Bolzoni è siciliano della provincia di Caltanissetta, e in un libro solitario e indispensabile, attraversa una delle vicende politiche, giudiziarie, economiche e sociali più significative dei nostri anni. Diciamo dell’ultimo ventennio, quello iniziato con il nuovo millennio. Calogero Antonio Montante, detto da tutti Antonello, è stato uno dei simboli del potere confinustriale siciliano che si “ribellava” – così è, se vi pare – alla mafia, e anzi prometteva – vi ricordate, succedeva a metà del primo decennio degli anni Duemila – di espellere qualunque iscritto sicialiano fosse scoperto a pagare il pizzo.
Ricordo bene, da giornalista politico ed economico allora meno che trentenne, il fervore che si accese nelle redazioni, le decine e decine di trasmissioni impegnati ad intessere l’elogio della svolta di quella Confindustria. Nel libro di Bolzoni si segnala che, tra i segnali sospetti, ce n’era uno facile da raccogliere, col passare degli anni: nessuno mai fu espulso. Eppure, il libro e l’incontro cui ho avuto il piacere di assistere, sono un viaggio sconfortante nel conformismo italiano, in cui c’è che sarebbe stato almeno ovvio verificare e raccontare scomparve, abbastanza rapidamente, nella cortina degli elogi per i grandi imprenditori coraggiosi, nella narrazione entusiastica delle promesse senza che nessuno abbia poi voluto verificare il loro mantenimento.
Il libro, e la chiacchierata con cui è stato introdotto, sono, tra le varie cose, anche un viaggio nel mondo del giornalismo italiano, il nostro mondo. Un pianeta strano, non c’è dubbio, che da questa vicenda non emerge certo lusingato come, invece, veniva lusingato da Montante, a suo tempo, con regali, complimenti, attenzioni. Bolzoni ha tenuto a marcare la distanza, a non trattare in modo uguale storie diverse: “Non possiamo paragonare brave persone, onesti professionisti che parlavano con Montante per ottenere sponsorizzazioni pienamente legittime per il loro giornale, e altri che invece ricevevano due stipendi: uno dal loro giornale e poi uno da Montante”.
Resta, al di là di tanti dettagli importanti, la grande fotografia tratteggiata da Bolzoni. Qualla di un malaffare che cresce indisturbato, di un’illegalità sistemica che si fonda sulla “dittatura della legalità”. Per esempio nella Caltannissetta che di questo libro è di fatto l’epicentro, in cui – racconta Bolzoni – che si fregia del titolo di Capitale italiana della Legalità, in cui c’è il Palazzo della Legalità: e dove ormai al solo sentire la parola ci si preoccupa, aspettando una nuova fregatura. Un libro non a caso circondato dal silenzio dei media “perfino delle associazioni Antimafia, come Libera…” sottolinea l’Autore. Che ricorda come “ogni silenzio voglia dire molte cose”.
Il silenzio, già. Quel silenzio in cui sono cambiati i codici, “non servono più grembiulini e compassi per marcare certe appartenenze”; quello stesso silenzio che è rafforzato dalle grida “la mafia è una montagna di merda” di chi emula Peppino Impastato, circondato e braccato dalla mafia, senza correre nessuno dei suoi rischi e non avendo nulla di quel coraggio. Oppure, e infine, il silenzio cui è stato ridotto il merlo parlante. Perchè? Perchè – appunto – parlava.
Devi fare login per commentare
Accedi