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Pippo Fava, ucciso dalla mafia il 5 gennaio 1984

5 Gennaio 2023

«Mi rendo conto che c’è un’enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione»

 

Pippo Fava, classe 1925, catanese di Palazzolo Acreide, è ricordato come scrittore, giornalista, drammaturgo, saggista e sceneggiatore. Pippo Fava viene anche ricordato per essere stato ucciso dalla mafia il 5 gennaio 1984. I suoi esordi risalgono al 1956, quando fu assunto da “Espresso sera”, di cui fu caporedattore sino a pochi anni prima della morte. Poliedrico scrittore, come poi dimostrerà negli anni, scriveva di cinema, teatro, calcio, ma la cifra stilistica che impose ai suoi lettori fu quella di realizzare interviste con i personaggi più scomodi e più in odore di mafia del momento. Ricordiamo la sua intervista a Calogero Vizzini e quella a Giuseppe Genco Russo.

La sua posizione rispetto a Cosa Nostra fece scegliere al suo editore, il catanese Mario Ciancio Sanfilippo, un giornalista più controllabile per il ruolo di direttore della seconda testata catanese, e questo fu il motivo er cui Fava non sedette mai su quella sedia. Contemporaneamente cominciò a scrivere per il teatro, riscuotendo subito consensi nazionali e  premi. Nel 1970 scrive “La violenza” che diventa pièce teatrale prima e film diretto da Florestano Vancini poi, nel 1975, Luigi Zampa dirige “Gente di rispetto”, tratto dal suo primo romanzo. Si chiude l’esperienza con “Espresso Sera” e Pippo Fava vola a Roma, dove collabora con “Radiorai” e con “Il Tempo” e “Il Corriere della Sera”. Nel 1980 la sua sceneggiatura, tratta dal proprio romanzo “Passione di Michele” ottiene l’Orso d’Oro nel film diretto da Werner Schoroeter, “Palermo or Wolfsburg”. Sempre nel 1980, gli viene affidata la direzione de “Il giornale del Sud”. Claudio Fava, a proposito, ricorda alcune parole del padre: «Disse: se io vengo, se mi chiamano, sanno chi sono e sanno di chiamare un giornalista che farà questo giornale con il massimo grado di libertà. E siccome non mi fido di nessuno, me lo metto per iscritto». «Aveva preparato – ricorda Claudio Fava – di suo pugno un contratto in cui in dieci righe si trattavano gli elementi economici, mentre nelle restanti quattro cartelle erano contenute, con una sorta di editoriale, tutti i suoi diritti di Direttore, le libertà principali e ciò che aveva diritto assoluto di fare in quel giornale, contratto che onorò, mettendo la proprietà in grande disagio». Fava costruisce una redazione di giovanissimi cronisti: Claudio Fava, il figlio, Elena Brancati, Rosario Lanza, Riccardo Orioles, Michele Gambino, Antonio Roccuzzo e Fabio Tracuzzi sono il gruppo inziale che lo circonderà. L’attività proseguì per oltre un anno poi, la posizione del giornale nei confronti dell’arresto del boss Alfio Ferlito e le inchieste che Fava e la sua squadra conducevano, cominciarono le minacce a cui seguì un attentato. Fava fu licenziato e con lui rimasero sulla strada, poco dopo, tutti i giornalisti.

Due vecchie rotative e la sua caparbietà, danno vita a Radar, una cooperativa che, oltre alle idee, non possiede altro. Inizia così l’avventura de “I Siciliani”, il nuovo mensile che, in pochissimo tempo, diventò il riferimento per i nascenti movimenti anti-mafia presenti in Sicilia e in Italia. Ogni inchiesta del giornale diventava caso politico. L’articolo “I quattro cavalieri dell’Apocalisse mafiosa” è un’inchiesta-denuncia sulle attività illecite di un gruppo di imprenditori catanesi e di altri personaggi, tra i quali Michele Sindona. L’inchiesta collegava “I cavalieri del lavoro” direttamente al boss Nitto Santapaola. Furono fatti diversi tentativi di acquistare il giornale, ma Fava fu irremovibile «I siciliani non si vendono».

 

https://youtu.be/2a89Km8mGi0

Giuseppe Fava intervistato da Enzo Biagi – courtesy of AccasFilm

 

Nel 1983 Fava siede sulla poltrona di fronte a Enzo Biagi in quella che risulterà poi essere la sua ultima intervista. In quell’occasione dichiara «Mi rendo conto che c’è un’enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e t’impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico e importante…»

Poco più di una settimana dopo, Fava aveva appena lasciato la redazione del giornale e si muoveva in direzione del Teatro Verga. Non ebbe nemmeno tempo di scendere dalla sua auto. Cinque proiettili si conficcarono nella sua nuca. Come spesso succede in Sicilia in quegli anni, “era un fimminaro, questione di donne…” e l’inizio delle indagini si rivolse inizialmente verso questa eventualità e sulla possibilità di un movente economico, viste le non floride finanze de “I Siciliani”. Il processo si ferma nel 1985 e solo nel 1994 riprende corpo e vigore dopo una diversa valutazione del lavoro svolta da Fava e la sua redazione. Nel 1988, per l’omicidio di Pippo Fava, sono stati condannati all’ergastolo il boss mafioso Nitto Santapaola, Marcello D’Agata, Francesco Giammuso, Aldo Ercolano e Maurizio Avola. Nel 2001 sono confermate le condanne per Santapaola ed Ercolano e nel 2003 sono stati condannati all’ergastolo. Avola ottiene, come reo confesso e pentito collaborante, sette anni patteggiati.

Voglio ricordarlo con le parole di chi ha lavorato con lui nei lunghi anni de “I Siciliani”, Riccardo Orioles «Non era Fava a firmare le inchieste di mafia che comparivano sui Siciliani. Quelle inchieste le firmavamo io, Gambino, o altri colleghi, nessuno dei quali è stato ammazzato. Noi riuscivamo a illuminare un pezzo, a mostrare una porzione di verità che veniva subito riassorbita. Fava era di più. Lui sapeva descrivere come nessun altro al mondo, puntava la luce sulla normalità. Uno così non si poteva lasciare vivere. E la normalità è quella di cui oggi non ci si occupa».

 

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