Criminalità
Perché la fuga di El Chapo è un affare che ci riguarda
La fuga dal carcere sabato scorso di Joaquin “El Chapo” Guzman, uno dei più potenti e pericolosi narcotrafficanti messicani, re del cartello di Sinaloa, non è un affare che riguarda solo il Paese latinoamericano e gli Stati Uniti.
Il ritorno in libertà, con la rocambolesca fuga attraverso un cunicolo di un chilometro e mezzo ricavato dal bagno della prigione (tre funzionari del carcere sono stati licenziati), la taglia che il governo messicano ha messo sul fuggitivo (3,8 milioni di dollari) rischia di trasformare il tutto in un film al quale gli italiani sembrano assistere come se sullo schermo dell’informazione globale ad aver preso il volo sia Harrison Ford e che la parola fine scorrerà presto prima dei titoli di coda.
Non sarà così, purtroppo. Gli effetti del ritorno in libertà di Guzman potrebbero presto sentirsi anche in Italia.
Dai primi anni del nuovo secolo la ndrangheta (considerata tra le mafie la più affidabile per concludere affari, data la potente massa di denaro in contante di cui dispone) fa arrivare ingenti quantitativi di cocaina e di droghe sintetiche non più dalla Colombia ma proprio dal Messico, grazie agli accordi stretti con i cartelli che gestiscono il narcotraffico in uno dei Paesi più violenti e corrotti di tutto l’America latinoamericana.
Gli analisti concordano che dopo la fuga di Joaquin Guzman, la mappa del traffico di droga in Messico cambierà: probabili nuove alleanze, così come è altrettanto probabile che El Chapo, per riaffermare la sua supremazia, scateni una guerra contro il gruppo che il governo messicano considera il più violento del Paese, il CJNG (Cartel Jalisco Nueva Generaciòn).
Una nuova ondata di violenze potrebbe essere possibile, specie in alcune regioni. Avvenne lo stesso nel 2001 quando Guzman cominciò una cruenta guerra ai cartelli rivali durata quasi un decennio con migliaia di morti. Negli ultimi dieci anni in Messico le vittime, a volte “collaterali”, della guerra per il controllo del narcotraffico sono state oltre sessantamila.
Lo scenario da allora è cambiato: alcuni dei principali cartelli rivali di El Chapo hanno subito una disarticolazione che li ha talvolta portati a ridurre il loro raggio di azione in un ambito territoriale ridotto (è il caso di Ciudad Juarez, la città tristemente nota anche per le continue sparizioni e i continui omicidi di donne).
I gruppi criminali messicani che controllano il narcotraffico ancora attivi sono i Los Zetas), i Cavalieri Templari e l’organizzazione dei fratelli Beltran Leyva. Ma sono quelli del CJNG, cartello specializzato nella produzione di droghe sintetiche, ad aver “invaso” il territorio di Sinaloa al momento della cattura di “El Chapo” nel 2014, approfittando della “debolezza” del successore di Guzman.
Intento a sistemare le questioni “interne”, “El Chapo” dovrà, però, anche dimostrare ai “partner” stranieri con cui era in affare prima dell’arresto di essere sempre un interlocutore affidabile per le forniture di cocaina, crack e altre droghe sintetiche.
Tra loro la ndrangheta calabrese, regina incontrastata del mercato della polvere bianca in Europa, proprio grazie ai rapporti prima coi narcos colombiani e dopo con uno dei più forti cartelli della droga messicani, Los Zetas e lo stesso El Chapo.
Se fino agli anni Ottanta e Novanta erano stati i colombiani a gestire il business del narcotraffico, avvalendosi solo della collaborazione della malavita organizzata messicana, che si limitava unicamente a un ruolo da comprimario, fornendo appoggio logistico per il trasporto degli stupefacenti sul suolo messicano, dall’inizio del 2000 i messicani hanno assunto la gestione diretta del traffico, non limitandosi a trasportare la coca, ma decidendone il prezzo, le rotte e le tre destinazioni principali: il mercato Usa, quello europeo, e quello emergente africano.
Diverse operazioni in Italia hanno dimostrato i collegamenti tra narcotrafficanti messicani e ndrangheta (da “Solare” a “Il Crimine” e “Crimine 2” e “Crimine 3”).
Suonano quindi ancora attuali, e purtroppo profetiche, le parole del procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri, pronunciate qualche tempo fa: “Il sistema di applicazione della legge in Messico è fortemente intriso di corruzione. Ragioni di questo andamento problematico e diffuso in Messico potrebbero essere i bassi salari dei poliziotti messicani o l’influenza di potenti uomini d’affari e politici che sono segretamente coinvolti nella ormai fiorente narco-business (…) Inoltre, è molto difficile per le autorità italiane collaborare con l’attuale sistema decentrato di applicazione della legge messicana, dove gli agenti di polizia sono sotto la direzione del governatore di ogni stato (…) Finché la corruzione e la mancanza di cooperazione è presente nel rapporto tra le forze dell’ordine messicane e italiane, le organizzazioni criminali provenienti da questi due paesi saranno probabilmente i grandi vincitori”.
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