Criminalità
Per ricordare quel prete ammazzato dalla mafia
È primavera. Sarebbe bello se, oltre alle proverbiali bambine, si svegliasse anche qualche coscienza. Il 21 marzo, grazie a Libera, è dedicato alle vittime innocenti di mafia: la giornata in cui si ricordano i tanti caduti nella guerra contro la criminalità organizzata italiana (ben più feroce, pericolosa e diffusa dell’Isis che spaventa tanto). Siamo arrivati alla ventesima edizione, e l’appuntamento con Libera è a Bologna.
Intanto, però la mafia, la camorra, la ’ndrangheta continuano ad ammazzare, a gestire, a controllare, a intimidire. I mafiosi vengono ancora idolatrati da serie tv molto “fiche”, le gomorre capitoline o milanesi sono tristemente note, le collusioni e le trattative diventano affare quotidiano. E in questa giornata – in cui la natura celebra se stessa, prima di abbandonarci ai debiti festeggiamenti primaverili – vale la pena insistere, ostinarsi a ricordare, spendere tempo, energie, riflessioni su quanto e cosa fare per omaggiare i caduti sotto i colpi di questi infami criminali.
Il teatro non si tira indietro, anzi. Sono tanti gli appuntamenti, gli artisti schierati, i lavori che prendono di petto questo paese rassegnato e assuefatto a tutto, cercando di scuoterlo.
A Udine, proprio ieri, mi è capitato di vedere uno spettacolo importante, destinato a un pubblico di scolaresche (per questo ancora più meritevole, ma adattissimo anche al pubblico adulto) che è un racconto sulla vita di Padre Pino Puglisi.
Lo spettacolo si intitola U Parrinu, la mia storia con Padre Pino Puglisi ucciso dalla mafia. L’ha scritto e lo interpreta il bravo Christian Di Domenico, attore di livello, che si è impegnato – è arrivato ad oltre 200 repliche in tutta Italia ed ha ancora tantissime richiesta anche grazie al passaparola – a tenere viva la memoria del sacerdote, fatto beato, sparato alla nuca nel 1993 da Salvatore Grigoli e Gaspare Spatuzza, su ordine dei fratelli Graviano.
La colpa di Don Puglisi era quella di rompere le scatole, di dare fastidio, di animare un quartiere – il quartiere Brancaccio di Palermo – con attività inaccettabili per le famiglie mafiose.
Alcuni fatti sono noti: Don Puglisi, con una colletta lanciata in tutto il mondo, aveva aperto un centro, il “Padre nostro”, per l’evangelizzazione e la “promozione umana”; era a fianco dei comitati di quartiere, si preoccupava dei ragazzini di strada per toglierli dalla sicura “carriera” criminale: «mafiosi, lasciatemi educare i vostri figli», diceva.
Faceva omelie sul sagrato della chiesa, aveva abolito il fastidioso rito dell’inchino al boss durante la processione, andava là dove c’era bisogno. Era capace di urlare in faccia ai politici compromessi o quanto meno “distratti” quali fossero i reali bisogni di quella parte di città abbandonata a se stessa: la scuola media, innanzi tutto; poi l’educazione, il gioco, la libertà. Ricominciare dai bambini per arrivare agli adulti.
U Parrinu, però, non è un’apologia del prete antimafia, né un sermone edificante.
È invece un racconto personale, personalissimo, addirittura intimo, di chi bambino ha conosciuto quel prete mite e fortissimo. La mamma di Christian Di Domenico era stata studentessa di Padre Puglisi, e nel tempo il rapporto tra docente e discente si era evoluto in una bella amicizia. La donna avrebbe mandato i figli in “colonia” da quel prete atipico, sarebbero cresciuti – loro che vivevano al nord – anche a contatto con il mare siciliano: superando prove di coraggio con i coetanei di lì, dividendo anche i primi sfottò e l’impraticabile “panino con la meusa”.
Di Domenico è bravo a scandire il proprio racconto con tappe che fanno parte dell’immaginario collettivo (e che accalappiano il pubblico giovane) come i Mondiali di calcio; tiene sapientemente ritmi e le fila di un racconto di formazione che è articolato e poetico, aggirando le trappole ormai canoniche del “teatro di narrazione”. Il suo è un racconto pieno di affetto e di rabbia, ma anche di stupore e incredulità.
Mescolando vicende private – anche scabrose – e fatti pubblici, giocando di rimando tra la propria l’avventura esistenziale e quella di Don Puglisi, Christian Di Domenico tiene comunque ferma la barra su un spettacolo che nasce da una urgenza precisa, senza cedimenti o sbandamenti. È un teatro a tesi, verrebbe da dire: sappiamo tutti la fine di questa storia, sappiamo di essere d’accordo con quanto si dice in scena.
Ma quando si ascolta la vecchia registrazione della segreteria telefonica, con il messaggio lasciato da Don Puglisi alla famiglia di Christian, la sera prima di essere ucciso, allora la commozione è forte. Perché è la voce di un uomo, non di un santo: di un uomo che si scusa per il ritardo con cui ha chiamato. La voce trema nel fruscio del nastro registrato, svela forse paura: il killer avrebbe dichiarato, molto dopo, che Don Puglisi aveva sorriso prima di essere ucciso e aveva detto: «me lo aspettavo».
Lui, lasciato solo dallo stato e dalla sua stessa chiesa cattolica, aveva continuato la sua battaglia cristiana fino all’ultimo. Non per sterile sacrificio, ma per amore, e per dignità.
Il pubblico di Udine, una marea di adolescenti tutti orgogliosi e fieri nella loro uniformità, ha ascoltato in un silenzio rispettosissimo. Licei, istituti tecnici, maschi e femmine: alla fine hanno applaudito a lungo. Erano emozionati: il messaggio è arrivato chiaro. Il futuro sarà migliore? Vorremmo sperarlo, certo Don Puglisi sorriderebbe all’idea. Ma sono più propenso a credere che questa battaglia sia ancora lungi dall’esser vinta.
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