Criminalità
Pena di morte: il paradosso di un braccio impotente
Caro Cigno nero,
da un recente sondaggio è risultato che attualmente in Italia il 40% dei giovani è favorevole alla pena di morte. Neppure in questo caso si tratta di una pura e semplice legittima idea ,anche se supportata da una qualche argomentazione . Appare la punta di un iceberg, che nella parte non visibile nasconde a volte una rabbia repressa, o una forte aggressività che si rivolge soprattutto contro quelli che hanno commesso un crimine e, perciò, “devono essere puniti”, non tanto con una pena esemplare, ma con una condanna a morte e basta :una sentenza senza appello. Spesso questo atteggiarsi a giudice severo scaturisce da una condizione di ignoranza, che genera la paura, che alimenta l’odio per un nemico quasi sempre immaginario; odio che a sua volta alimenta la distruzione della convivenza e di quello che Confucio chiama il senso di umanità.
Questo ci fa ritenere, in una visione non pessimistica della vita, che anche per un criminale ci sia la possibilità di un cambiamento e di migliorarsi come persona. Quindi la pena, più che essere dettata dal desiderio di vendetta, può tendere alla rieducazione di colui che non ha rispettato la legge, fatto salvo il criterio della “certezza della pena” e del bisogno di Verità e Giustizia.
Potrebbe colui che non ha avuto l’opportunità di imparare, a scuola o in famiglia, a governare i sentimenti e a comportarsi bene con tutti, imparare, mentre “sconta” la pena, proprio dai suoi errori?
Anna
Cara Anna,
qualche tempo fa il New York Times ha lanciato ai suoi lettori un sondaggio che suonava più o meno così: potendo viaggiare nel tempo, uccidereste il piccolo Hitler per salvare la vita a milioni di altri bambini?
Il 42% dei lettori rispose di sì, il 30% no e il restante 28% disse di non saper rispondere. Tralasciando i paradossi spazio-temporali e l’impossibilità di un reale viaggio nel tempo, questo sondaggio ci mette di fronte ad un interrogativo che ci riporta direttamente all’altro sondaggio, quello a cui fai riferimento, sulla pena di morte, ovvero: è etico uccidere qualcuno “a fin di bene”? Se, dicendo di voler uccidere il piccolo Hitler ‒ ignorando così il “principio di autoconsistenza” di Novikov, secondo cui il passato è immutabile ‒ quel 42% si è fatto guidare dal criterio della salvezza di altre vite, nel caso della pena di morte, qual è il bene che può venire dall’uccidere una persona, pur colpevole di aver ucciso a sua volta? Nella condanna a morte sembra esserci l’idea che nessun ergastolo, nessuna certezza della pena possa renderci giustizia. Una giustizia che ha più il sapore della vendetta, che di solito è questione privata, e il cui “senso” sta tutto nella paradossale equivalenza: ti uccido perché hai ucciso. Una sentenza lapidaria che però può dirci qualcosa sul “chi uccide”. I potenziali assassini di Hitler, quella consistente percentuale, sanno che non si troveranno mai realmente di fronte a lui, e che non dovranno perciò mai assumersi davvero una tale responsabilità, nè doverci fare i conti. Prevale, piuttosto, un desiderio estraneo, spesso generato da senso di impotenza e rabbia, di cancellare uno dei più grandi mali di cui la storia si è macchiata. Quanto a quel 40% favorevole alla pena di morte, non sarà certo il loro braccio a decapitare, fucilare, impiccare o somministrare al condannato una iniezione letale. A farlo sarà lo Stato, entità senza volto e quindi senza possibilità di immedesimazione totale e reale. Ed è proprio qui che sta l’aspetto tutt’altro che secondario della questione: se è la legge a dire che un condannato merita la morte, la giustizia sembra coincidere con l’etica. Ma la tragedia greca ci ricorda che non sempre è così, perché esistono casi in cui quel codice scritto di leggi che regolano la nostra pacifica convivenza, informandoci su diritti e doveri, entra in contrasto con un altro tipo di diritto, non scritto, quello naturale. È quanto succede, per esempio, ad Antigone, protagonista della tragedia di Sofocle, che infrange la legge civile (nomos), dando sepoltura a suo fratello ‒ colpevole di essere traditore della patria e quindi non degno di sepoltura ‒ perché si fa guidare dalla legge naturale (physis) che considera fondamento della stessa civiltà umana e perciò inviolabile. Il dramma di Antigone è lo stesso di ogni essere umano che si è trovato di fronte alla scelta tra una legge imposta dal potere, ritenuta ingiusta, e una legge morale. Una legge universale, assoluta e incondizionata per Kant, il filosofo che ha saputo cogliere la nostra bidimensionalità nella tensione continua tra sensibilità e ragione, una lotta imprescindibile che ci rende liberi e quindi morali nella pratica, al di fuori del concetto, tanto astratto quanto inesistente, di perfezione etica.
E mentre è di pochi giorni fa la notizia che la Virginia ha abolito la pena di morte, sappiamo che non sono pochi gli stati che ancora la praticano. Così sono più che mai attuali le parole di Elias Canetti a proposito del rapporto tra massa e potere: “L’omicidio autorizzato compensa di tutti gli omicidi cui si deve rinunciare, di tutti quelli che farebbero temere pesanti punizioni. Un omicidio senza pericolo, permesso, raccomandato, e spartito con molti altri, è irresistibile per la maggioranza degli uomini”. Quell’omicidio autorizzato che è la pena di morte è una doppia condanna, perché, oltre a prendersi la vita del colpevole, è anche e prima ancora, una sentenza senza appello sulla impossibilità per l’essere umano di cambiare. Cosa in cui invece credeva fortemente Cesare Beccaria, sostenitore di una politica morale fondata sui sentimenti indelebili dell’uomo. La pena, per lui, non può essere una reazione istintiva, e quindi deve essere esemplare, non crudele, orientata cioè alla rieducazione del condannato e, allo stesso tempo, deterrente per altri potenziali crimini, tenendo conto della sicurezza della società. Una tesi, la sua, fondata sulla certezza della pena, che resta oggi un capitolo controverso, a dimostrazione del fatto che la fallibilità umana non si risolve nella codificazione di una legge.
Uno Stato che non sa trovare equilibrio tra nomos e physis, tra diritto positivo e diritto naturale, tra ragione e sentimento, può davvero rappresentare i suoi cittadini, che oltre ad essere tali sono anche persone? Non se resta un’entità astratta per cui la vita di un essere umano diventa pura questione giuridica. Se invece ognuno di noi si sentisse davvero parte dello Stato, quasi parte anatomica per risonanza, forse non esisterebbe più un braccio della morte, perché quel braccio sarebbe davvero il braccio di ognuno di noi, e il non morire andrebbe di pari passo con il vivere civile.
Non si tratta quindi di visione ottimistica o pessimistica, quanto di essere capaci di riabilitare un sentimento che sembra essere passato di moda: la pietà, che per Maria Zambrano non ha niente a che fare con la filantropia o la compassione, ma è la capacità di trattare con l’eterogeneità, con tutto ciò che è totalmente diverso, distante da noi. Quella pietà che nel tempo è stata sostituita dalla giustizia, e che ci ha portato ad agire sempre e solo in nome della giustizia. Ma dentro di noi sappiamo che non si conosce solo attraverso la ragione e la sua controparte pratica, la giustizia: ci sono situazioni in cui gli eventi del mondo non si limitano a toccarci, ma ci inondano, a volte ci sommergono. E con questo dobbiamo fare i conti. La guida per non perderci, dice ancora Zambrano, è la pietà. Quale migliore esempio e stimolo può esserci per chi perde la rotta?
Per Montesquieu, ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità è tirannica. E se, invece di chiedere: “sei favorevole alla pena di morte?”, un sondaggio domandasse: “cosa c’è di necessario nella pena di morte?”, quale risultato si avrebbe?
Maria Luisa Petruccelli
Per scrivere al Cigno Nero: lapostadelcignonero@gmail.com
Ogni venerdì pubblicheremo le vostre mail.
Chi scrive accetta di vedere pubblicato quanto invia.
Devi fare login per commentare
Accedi