Criminalità

Omicidi di Saronno: perché tutti tacevano?

20 Dicembre 2016

Quante sarebbero le persone uccise da Leonardo Cazzaniga e Laura Taroni a Saronno? Solo il processo alla coppia potrà ricostruire la verità.

La catena di morti sospette ha sconvolto gli Italiani: un orrore avvenuto in una tranquilla provincia e per giunta nel luogo in cui le persone dovrebbero sentirsi più sicure, ossia l’ospedale.

Ma la nostra attenzione non deve andare soltanto ai delitti, bensì anche al contesto in cui sono avvenuti. Le prime ricostruzioni, riportate dai media, sostengono che tanti sapessero e abbiano taciuto: anche questo è vero orrore. Ma perché? Con che coraggio ci si può girare dall’altra parte quando un collega medico, una collega infermiera uccidono una persona inerme, un paziente affidato a loro e che il giuramento di Ippocrate impone di curare? Lo abbiamo chiesto alla psicologa Stefania Della Corte.

La catena di omicidi è agghiacciante, ma il contesto omertoso non lo è meno.

Mi viene subito alla mente la frase del politico Edmund Burke “Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rimangano in silenzio”. Forse questa frase riassume una buona parte delle sensazioni che questa vicenda orribile mi suscita. Un reparto di ospedale che diventa un luogo di orrori, dove trionfa la patologia mentale non trattata e squallide relazioni malate. Si tace anche quando non ci si identifica più con un contesto o quando si sposta sempre di più quel confine del giusto e sbagliato fino a quando tutto diventa possibile, anche che un medico con evidenti disagi mentali prenda il sopravvento su tutto… È proprio il caso di dire che, quando la patologia mentale fa paura da mettere tutti in crisi, molti scelgono di tacere. Come facevano quei dipendenti del reparto a lavorare con quei sospetti sul medico e sull’infermiera? Come si fa a “farsi i fatti propri” quando si è chiamati a lavorare in un contesto in cui bisogna dedicarsi all’altro, prendersi cura dell’altro? Tale episodio orribile più che trovare risposte suscita in noi domande, ed è forse proprio a partire da tali domande, dal confrontarsi che spero arrivi a tutte quelle persone che hanno vissuto la vicenda da vicino, una spinta a domandare piuttosto che a tacere.

Una dottoressa avrebbe ricattato i dirigenti dell’ospedale di raccontare tutto alla polizia se non l’avessero assunta a tempo indeterminato. Come si può arrivare a tanto, per il famoso posto fisso, incuranti delle vittime e dei loro familiari?

Quando un essere umano si appiattisce a tal punto da considerare il posto fisso un valore, una meta così importante da passare sopra ogni cosa… beh abbiamo superato proprio il limite! Ci si è forse imbattuti in un percorso di vita – a volerlo proprio raffigurare visivamente – arido, fatto di terra morta, un paesaggio vuoto… Mi appoggio a questa immagine che ben rende la raffigurazione della tal persona. Ormai non si è più collegati con il proprio desiderio, con un disegno di vita improntato alla gioia, ma con quel posto fisso la persona segna la propria condanna. In fondo di fisso, quando parliamo di vita, cosa c’è?

Perché ora i giornalisti danno fastidio e sono allontanati proprio da chi lavora all’ospedale di Saronno?

Probabilmente perché sono ancora così nelle “nebbie” che non comprendono l’importanza dell’occasione che hanno in mano: poter cambiare, poter raccontare l’orrore e soprattutto riflettere su quanto accaduto. Oltre ai giornalisti, invierei in loco terapeuti che possano accogliere – si spera ne arrivino – richieste per prendere parola su quanto accaduto, riuscire a raccontare davanti a loro stessi, prima che davanti a una telecamera o un microfono, quanto accaduto e realizzare, prendere le distanze in modo sano, così da poter lavorare, semmai sarà possibile, secondo i principi dell’ormai dimenticato Ippocrate.

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