Criminalità

Odor di Ligera

23 Luglio 2017

“Dottore, non l’ho vista giovedì scorso… Tutto bene?”.

Nei corridoi del tribunale di Matera, durante una pausa del processo a Scarcia + 16 per presunta associazione mafiosa, Damiano P. mi si avvicinò rivolgendomi quella domanda inaspettata. Magro, naso adunco, baffetti, sembrava l’incarnazione di uno dei ceffi partoriti dalla matita dei disegnatori di Capitan Miki. Lui era uno degli imputati minori del processo, che beneficiava dei domiciliari e, pertanto, durante le udienze sedeva su una panca alla destra del pubblico, insieme ad altri che erano a piede libero.

Fino ad allora tutte le mie attenzioni erano state per Scarcia, che aveva inviato una lunghissima lettera al giornale (che conservo come ricordo), in cui si lamentava del trattamento subìto ad opera del “signor Murzio”. Poche settimane prima, subito dopo l’arrivo della lettera, spedita al giornale dal carcere di Melfi, un giovedì ero andato in udienza con una copia del “Quotidiano della Basilicata” (seguivo la nera e la giudiziaria di Matera per loro, su incarico di Paride Leporace) e avevo richiamato l’attenzione del “boss”, alzando il giornale, puntando il dito sulla testata e poi rivolgendolo verso me stesso, accompagnando il gesto con il labiale: “Sono io quello del giornale”. Scarcia mi aveva sorriso, ma da allora seguire quel processo era diventata una “tragedia”: prima di ogni dichiarazione spontanea che il presunto boss rilasciava (almeno una a udienza), prima di uscire dalla gabbia degli imputati mi guardava e, in un certo senso, mi allertava, facendo il segno della penna e dicendo “Scrivi”, come se avesse dovuto ogni volta fare delle rivelazioni sconvolgenti. Cosa che non avvenne mai, ma ogni volta quelle dichiarazioni riuscivano a dare un titolo per il giorno dopo, dato che nei giorni rimanenti per la giudiziaria a Matera bisognava accontentarsi di qualche partita di calcetto finita in lite.

“Sono stato fuori”, risposi a Damiano P., “a trovare i miei figli che vivono a Lodi”.

Gli occhi gli si illuminarono: “Ma anche io vivo a Milano, dottore! Sono qui per il processo, tirato dentro per una intercettazione e accusato di spaccio di droga. Mi hanno messo in mezzo solo perché io parlavo di un divano che avrebbero dovuto portarmi a Milano da Matera e quelli hanno pensato che parlassi in codice di droga”. Poi aggiunse risentito: “Che poi, uno come me che si è fatto il carcere per traffico internazionale di stupefacenti, secondo lei si mette a spacciare qualche grammo di cocaina?”.

“Comunque, aggiunse, le do il mio numero di cellulare, se viene di nuovo a Lodi, mi chiami, andiamo a mangiare qualcosa insieme. Ma possiamo darci del tu?”.

Di Damiano P. mi ritrovai a scrivere qualche settimana dopo perché era evaso dai domiciliari. Una evasione sui generis, visto che per uno sbalzo di pressione era caduto in casa, aveva battuto la testa ed essendo da solo era andato in farmacia per comprare il necessario per le medicazioni. Sfortunato: una pattuglia di carabinieri lo aveva incrociato durante il tragitto ed era scattato l’arresto.

Ne scrissi mettendo in risalto quella che per me sembrava un’assurdità, ignorando che quelle due colonne striminzite sarebbero state molto gradite dall’imputato Damiano P., che quando ebbe superato questo ostacolo fu raggiunto un giovedì in tribunale da una stangona brasiliana di una trentina di anni più giovane che lui si premurò perfino di presentare al pubblico ministero come “la mia ragazza”.

Qualche mese dopo ero a Lodi per la prima comunione di uno dei miei figli e ad ospitarmi fu un amico che aveva un appartamento in piazza Napoli a Milano, che mi lasciò le chiavi di casa.

La cerimonia era per la domenica mattina, il sabato ero a Milano e ciondolavo senza sapere cosa fare. Fino a quando mi venne l’illuminazione: “P.!”. Scorsi la rubrica sul telefono, trovai il numero e lo chiamai. Rispose quasi subito e sembrava contento di sentirmi. Gli dissi che ero a Milano e che se voleva avremmo potuto vederci.

“Sto lavorando”, mi spiegò, “vediamoci alla sette, dimmi tu dove”. “Per te andrebbe bene Romolo, alla fermata della metro verde?”, gli chiesi.

“Sì, perfetto, ci vediamo lì”.

Puntuale, alle sette arrivò a bordo di una Mercedes di color grigio metalizzato, accostò e mi fece cenno di salire. Una stretta di mano e subito un chiarimento (a cui evidentemente teneva molto): “Ti ho detto che stavo lavorando, non è che stessi lavorando io, seguivo i lavori in un mio appartamento in viale Bligny”. E aggiunse: “Io in vita mia non ho mai lavorato”. A scanso di equivoci, insomma,

Girammo un po’ per il Ticinese, si fermò in un paio di bar mentre io lo aspettavo in macchina. Poi mi disse: “Stasera ristorante di pesce. Offro io, naturalmente”.

Alle nove eravamo dalle parti di viale Certosa e lì cominciò una serata che solo un romanziere saprebbe raccontare con la dovuta dovizia di particolari.

Sedemmo a tavola con una coppia di suoi amici (penso gli unici incensurati che avremmo poi visto durante tutta la serata) e cominciammo con gli antipasti. Damiano P. era di casa, i camerieri lo salutavano e venne a salutarlo anche il titolare. Il pesce era freschissimo, il vino di marca e lui continuava a versarmi da bere. Ora, non essendo un grande bevitore e in preda a una strana euforia (mi allontanai perfino un attimo per andare fuori a telefonare a Michelangelo, il collega che seguiva con me la nera a Matera, e ridendo gli dissi: “Indovina dove e con chi sono a cena?”. Lui ci prese subito, ad onor del vero), a un certo punto, guardando dritto negli occhi Damiano P., che aveva una spiccata antipatia per la collega della testata concorrente, gli dissi: “E già, a quella lì viene facile, parlare con i pm, con i carabinieri… io ho un’altra visione del mio lavoro di giornalista: è con i delinquenti come te che bisogna parlare!”. Non si offese, sapeva di essere stato un delinquente (e forse lo era ancora) e prese le mie parole quasi come una grande dichiarazione di stima, tanto che per andare fuori dal ristorante a fumare l’ennesima sigaretta, mi mise il braccio intorno al collo, come noi meridionali facciamo con i vecchi amici.

Fu allora che mi accorsi dei tanti sguardi puntati su di me, quasi tutti interrogativi. Sembrava che molti si chiedessero: “Ma chi sarà questo, che è così in confidenza con Damiano?”. Io ero sempre più divertito e sempre più calato nella parte, tanto che mi ritrovai nel mezzo di un dialogo che un tizio ebbe con il mio commensale. Parlava di qualcuno che era al gabbio e che aveva problemi di soldi. Damiano P. quasi indignato, diceva: “Ma perché non me l’ha fatto sapere? Perché non mi ha scritto? Quello scrive le lettere ogni venerdì…”. Sapeva delle abitudini in carcere di un suo amico e in quel momento ho colto il vero senso del termine “radio carcere”. Quelli che sono fuori sanno vita morte e miracoli di quelli che sono dentro, perfino il giorno prediletto per prendere carta e penna.

Un tizio sulla cinquantina venne al tavolo a riverirlo. Appena si allontanò, Damiano si sentì di darmi delle spiegazioni: “Quello stronzo mi deve cinquanta milioni, un colpo di pistola dovrei sparargli…”.

Finita la cena, fu la prima (e sarebbe stata l’ultima volta) che vidi una carta di credito platino. Damiano P., che mi aveva raccontato la sua ascesa da criminale (“ho cominciato facendo le autoradio appena salito d Matera a Milano, poi gestivo delle bische: quelli sì che erano bei tempi, portavo a casa anche cinquanta o sessanta milioni a sera, era il periodo di Turatello, Vallanzasca…”) mi riaccompagnò verso la casa che mi ospitava. Arrivato in piazza Napoli, quasi a scusarsi, disse: “Potevi anche avvisarmi prima, però, che venivi, stasera non riesco a procurarti una compagnia” (uno dei suoi rami d’azienda, seppi in seguito, era stato lo sfruttamento della prostituzione). Io abbozzai: “No, tranquillo, non preoccuparti, domani ho la comunione di mio figlio… dai, non mancherà occasione…”.

Dopo quella volta risentii Damiano altre volte per telefono e lo rividi quando ormai mi ero trasferito a Lodi e lavoravo a Milano in zona San Siro, poco distante da piazzale Lotto.

Ci demmo appuntamento in un bar, penso fosse in via o piazza Selinunte, di fronte ai palazzoni popolari quasi tutti occupati da abusivi. Lo trovai insieme a un suo amico sardo. Amico ed ex collega, visto i continui, reciproci sfottò sull’abilità di saltare ancora il bancone di una banca, poggiandosi su un solo braccio, come ai vecchi tempi.

Il sardo, in chemioterapia all’Humanitas di Rozzano, parlava di come fosse ormai difficile rapinare un istituto di credito, una riflessione che aveva fatto proprio recandosi in ospedale e passando davanti a una banca.

Poi, dopo la mia gaffe nel chiedergli perché lo avevano tenuto per cinque anni al 41 bis, domanda che glissò fulminandomi con lo sguardo, spiegò che da rapinatore aveva sempre tenuto a un suo codice: “Stavamo andando a fare una banca a…, io ero alla guida, guardo nello specchietto retrovisore e vedo Tizio che sta sniffando, faccio inversione e dico: basta, non se ne fa più niente!”. Banditi sì, ma con onore.

Poi mi invitò a salire a casa sua. Nel soggiorno c’era una sua fotografia gigantesca in bianco e nero. Basettoni, cravatta con nodo enorme, come si usava allora, mi sembrava di essere finito in casa di Grazianeddu Mesina e fantasticavo che da un momento all’altro avrei potuto sentire il suono della sirena di una volante con a bordo Maurizio Merli in un remake di un poliziottesco.

Dopo un paio di incontri al bar, Damiano P., che si era premurato di farmi sapere che gli era arrivata una cartella esattoriale di 250mila euro per un vecchio processo a suo carico, non lo vidi più.

Lo rividi in una bara nell’obitorio del Pini di Milano. Era morto di ictus e la notizia mi era arrivata dal collega di Matera.

Nella camera ardente si ripetè la scena del ristorante. I parenti, tra cui l’ex moglie (“sai chi è la mia ex moglie?, mi aveva detto quella sera al ristorante, “la figlia di… e aveva fatto il nome di un boss napoletano) mi guardavano straniti, quasi a chiedersi “e questo chi è?”.

Damiano P. aveva sessant’anni quando è morto, cinque o sei anni fa.

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