Cooperazione
Qui una volta era tutta mafia: la storia di legalità della coop Valle del Marro
Tra gli ulivi secolari e i vasti agrumeti della Chjiana, com’è conosciuta in dialetto locale la Piana di Gioia Tauro, sorge un’oasi di legalità che da oltre dieci anni rappresenta uno degli esempi più solidi e funzionanti di riutilizzo sociale delle terre confiscate alla ‘ndrangheta. Dal dicembre del 2004 la cooperativa Valle del Marro – Libera Terra, coltivando terreni sottratti alle cosche mafiose della zona, utilizza l’agricoltura come arma di difesa contro gli artigli della criminalità organizzata, producendo prodotti biologici – soprattutto arance, olio e olive – e proponendo percorsi di formazione etica per adulti e ragazzi.
Un percorso di eccellenza verso una «economia sana da tutti i punti di vista» che dà lavoro a 12 persone con contratti a tempo indeterminato, oltre ad una squadra di 35 stagionali che aiutano durante il periodo del raccolto. Un percorso, però, non privo di difficoltà e di ostacoli.
Nel corso di dieci anni, Valle del Marro ha vissuto sulla propria pelle oltre venti episodi di intimidazione e danneggiamenti alle strutture da parte degli ‘ndranghetisti della zona. L’ultimo alla fine di gennaio, quando a Sovereto un gran numero di arance e parte dell’impianto d’irrigazione, costruito un anno fa con un grande sforzo economico, sono stati rubati durante la notte. «È un’azione ormai sistematica: vogliono sfiancarci, rovinarci il lavoro, affinché i terreni tornino a loro disposizione», spiega al telefono Domenico Fazzari, presidente della cooperativa.
Quando tutto cominciò, nello studio di un notaio il 13 dicembre 2004, i soci fondatori di Valle del Marro furono etichettati come degli incoscienti.
«Siete pazzi, ci dicevano familiari e amici. Ma chi ve lo fa fare di gestire i terreni confiscati? Illusi, lasciate perdere: non cambierà mai niente».
Frasi che, secondo Fazzari, germogliano da un retroterra culturale radicato negli anni: «I terreni confiscati, nella mente delle persone, restavano di proprietà dei mafiosi. In alcuni casi, questo pensiero trovava anche un riscontro fattuale: i mafiosi continuavano a gestirli anche dopo la confisca, in barba alle autorità – racconta -. Noi abbiamo voluto contribuire a cambiare questa mentalità tramite l’utilizzo sociale dell’edificio o del terreno. Le organizzazioni criminali vorrebbero l’abbandono, e si trovano spiazzate».
Se oggi possiamo discutere di beni confiscati e di lotta alla ‘ndrangheta in piazza, lo dobbiamo soprattutto a iniziative come Valle del Marro e al coraggio di quei «pazzi». Fazzari era stato attivista di Libera fin da ragazzo, a metà degli anni ’90, quando l’Associazione fondata da don Luigi Ciotti stava nascendo. La proposta di riutilizzare socialmente i beni confiscati alle mafie fu proprio il primo grande risultato raggiunto dall’organizzazione non governativa, che riuscì a fare convertire l’idea in legge (la 109/96, qui il testo).
Valle del Marro, otto anni più tardi, è diventata uno dei primissimi esempi di applicazione pratica di quella norma. Una norma che mira a colpire la mafia non soltanto nell’orgoglio, ma anche nel suo punto più forte e insieme più sensibile: il portafoglio. Nella comunità parrocchiale di Polisena, dove la coop ha la sua sede, si lavora da decenni su questi temi. All’ombra del campanile della Chiesa di don Pino de Masi, oggi referente di Libera per la piana di Gioia Tauro, si comincia a parlare di legalità già negli anni ’80. «La Chiesa in quegli anni era l’unica istituzione presente in quel periodo», ricorda Fazzari.
Oggi, a Valle del Marro, le cose sono cambiate rispetto a dieci anni fa. «All’inizio faticavamo persino a trovare manodopera: molti, quando scoprivano che si trattava di lavorare su terreni confiscati alla ‘ndrangheta, rifiutavano l’impiego. Oggi invece siamo pieni di curriculum di persone consapevoli e intenzionate a darci una mano».
«È innegabile che ci sia ancora bisogno di tempo e di percorrere tanta strada, soprattutto a livello culturale, ma sento il cambiamento vicinissimo», racconta Fazzari.
Secondo lui è necessario partire dai genitori, che ancora favoriscono la crescita e la prosperità di una mentalità mafiosa nei propri figli. A cominciare dai proverbi che madri e padri ripetono, come mantra, agli adolescenti: “Fatti i fatti tuoi che campi cent’anni”, “Ma chi te lo fa fare”, “Se questa truffa non la fai tu, la fa qualcun altro, quindi conviene che sia tu a farla”. «È questo il terreno che va coltivato, estirpando la mentalità della ‘ndrangheta fin dall’infanzia».
Oggi la cooperativa organizza campi di lavoro sui terreni confiscati durante l’estate, aperti a bambini, ragazzi e adulti. «Ma ci stiamo organizzando per farli durante tutto l’anno, siamo inondati di richieste», spiega Fazzari. Le difficoltà economiche si fanno sentire: il raccolto del 2014 è andato peggio del previsto a causa delle avverse condizioni climatiche.
Tocca rimboccarsi le maniche, ancora una volta, per ripartire con la stessa energia. «Il mio sogno», conclude Fazzari, «è che domani Valle del Marro non esista più, che non ci sia più bisogno di una cooperativa che lavori su terreni confiscati, ma che ci siano tante iniziative libere in grado di rappresentare la normalità del nostro territorio».
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