Criminalità

Ma che c’entra il rap con l’Islam? E con il terrorismo?

10 Gennaio 2015

“Hey Joe, where are you going with that gun in your hand? I’m going downtown to shoot my old lady, you know I caught her mess around with another man”. Un pezzo di musica violento, che quelli della mia generazione conoscono molto bene. Chiedetevi come sarebbe se lo cambiassimo in rap e la frase fosse: “Hey Chérif, dove stai andando con mitra, giberne e elmetto? Sto andando  a Parigi, a stendere della gente che prende per il culo Maometto”.  Mettete tutto in un fumetto, fatelo uscire dalla bocca di un imam, disegnate l’imam con una chitarra elettrica, e che sia rigorosamente mancino. Otterrete roba da ridere: una vignetta da Charlie Hebdo, e un gesto satirico che come sempre vi porrà  domande serie. Che c’entra il rap? Che c’entra la musica? E la relazione tra musica e violenza è rimasta la stessa oggi ai tempi della Jihad, rispetto a quella degli anni di piombo? E tra musica e spirito religioso?

Sembrerà senz’altro strano, ma mentre tutti i commentatori si focalizzano sul rapporto tra violenza ed islam, io che sono felicemente ateo, e che quando chiuderò gli occhi rimpiangerò solo di non poter sentire la musica che suoneranno al mio funerale (sarà Saint James Infirmary nella versione di Joe Cocker), sono colpito da giorni dalla forte relazione tra questi atti di violenza e il rap: una musica che per ragioni anagrafiche conosco poco, e che non mi piace, ma che rispetto come tutte le musiche, in particolare le musiche che smuovono nei giovani di oggi quello che smuovevano in me da giovane.

E’ vero che la correlazione tra rap e questa violenza non è forte come quella tra fede religiosa e violenza. Risuona oggi una frase, attribuita a Oriana Fallaci: “se è vero che non tutti gli islamici sono terroristi, è vero che tutti i terroristi sono islamici”. Chi si occupa di statistica riconoscerà in questa frase un esempio, se non una definizione, del “limite di Fréchet”, che descrive la dipendenza (cioè la correlazione) perfetta tra due variabili. In altri termini, la traduzione statistica del concetto della Fallaci, ignoto ovviamente alla Fallaci che lo scriveva e a chi la cita oggi, è: “i fenomeni terrorismo ed islam hanno correlazione (tra ranghi) pari a uno”.  L’idea, dietro questa misura estrema, è proprio che non può esistere un terrorista che non sia islamico. E’ chiaramente un’affermazione estrema di correlazione, che nega ogni altro motivo, oltre l’islam, per il gesto terroristico. E’ chiaro che la relazione con il rap è senz’altro molto più blanda, ma è ai miei occhi più strana: e quello che la rende strana non è certo la relazione tra rap e violenza, che è molto più forte di quella del pezzo di Jimy Hendrix, ma è la relazione tra rap e islam.

Eppure la relazione è innegabile. Si scopre che il tagliagole vestito di nero che sgozza giornalisti e volontari è un ex-rapper londinese. Lo sceriffo Chérif viene riportato al rap, in un pezzo di repertorio che lo fa vedere sorridente in maglietta insieme a un amico. E infine, da Santoro c’è una intervista a un ragazzo bresciano, amico di uno partito per la Jihad, anche questo rapper: il pezzo finisce, a quanto capisco, con lo stesso ragazzo che urla alla giustizia con un berretto e la gestualità del rap. Non riesco a capire, e proprio per questo ricorro alla tecnica di rendere tutto paradossale e ridicolo (un po’ come fa la satira) per comprendere almeno qualche differenza, se non delle verità. E mi viene da ridere a pensare ai sequestratori di Moro che a via Gradoli mettono pezzi heavy-metal a palla, magari mettendo a rischio la loro operazione per le proteste dei vicini. Questo mi fa capire che tra quella generazione e questa qualche cosa che è cambiato, nella relazione tra la terna: terrorismo, religione e politica.

Sulla relazione tra queste tre variabili possiamo avanzare solo qualche congettura. In primo luogo, il legame stretto tra terrorismo e spirito religioso. Se la frase della Fallaci fosse: “non tutti quelli che hanno spirito religioso sono terroristi, ma tutti i terroristi hanno spirito religioso” io mi sentirei di approvare la frase, pur cosciente del significato statistico estremo della frase stessa. E forse sarebbe d’accordo anche Marco Bellocchio, che nella sua opera “Buongiorno notte” fa fare in maniera ossessiva ai brigatisti di via Gradoli il segno della croce. Chi fa terrorismo vuole affermare il paradiso in cielo o in terra, e non dovrebbe curarsi della musica.


Il rapporto tra violenza e musica era quindi molto diverso nei nostri anni di piombo. La musica, anche violenta, apparteneva al movimento, e in qualche modo lo distingueva dalla seriosità del terrorismo. La violenza rappresentata nella musica aveva quasi un ruolo catartico. E potevamo cantare anche una strofa di violenza sessista come quella della canzone di Jimy Hendrix senza sentire un conflitto con il nostro modo di pensare. Trasportare la violenza nella musica ci faceva da scudo: finché tenevamo alla musica eravamo lontani dal terrorismo. Per questo forse in quegli anni non si è rivelata, e non sarebbe stata neppure pensabile, una relazione sistematica tra attività musicale e attività di terrorismo. Ed è questo che mi rende strana la comparsa di questa relazione nel terrorismo islamico di oggi.

Purtroppo il mio ragionamento non mi porta oltre. Mi fa capire delle differenze, ma non delle verità. Io in fondo non conosco il Corano, né ho intenzione di conoscerlo. E non conosco neppure il rap, e anche con questo non ho intenzione di avere una relazione più forte di quella che ho con il fumo passivo. So che il rap sa essere violento e sa trasportare in chi lo canta la violenza dalle strofe nella vita. Ho sentito qualcosa del “gangsta rap” e della morte violenta di un certo Twopack. Ma questo invece di portarmi a una risposta alle mie domande, solleva in me un’altra contraddizione. Mi viene in mente il contrasto tra il suono liscio e confortante del corano e quello sincopato e ossessivo del rap. Mi viene anche in mente il contrasto tra la struttura del rap e la musica trionfale che accompagna i video di propaganda dell’ISIS che ogni tanto ci fanno vedere alla televisione, che ricordano invece la musica che inneggiava alla rivoluzione e al socialismo reale. E sono quelli i canti che abbiamo sentito i brigatisti intonare da dietro le sbarre nel corso dei processi. Se avessero fatto il rap, ci saremmo tutti messi a ridere, compreso la corte.

Che conclusioni trarre da questa faticosa ricerca? Più domande, che conclusioni. La domanda regina è se abbia un senso includere la musica in una relazione che è già complessa come quella tra religione e violenza (terroristica in particolare): in pratica, se abbia un senso tutto quello che qui ho scritto. Legata a questa c’è una domanda tecnica, di tipo statistico, che devo farmi io per primo, che in queste riflessioni ho coinvolto la statistica. La domanda è se questa relazione tra terrorismo islamico e rap non sia, come si dice, “spuria”.  Ci sarebbe quindi un’altra caratteristica, e cioè il fatto che i terroristi sono giovani e occidentali, che fa sì che abbiano passioni, come quella per il rap, che li accomunano agli altri giovani dei loro stessi paesi. Questa è senz’altro un’obiezione seria, e forse una risposta vera. Restano però due considerazioni. In primo luogo, la stessa correlazione non c’era nel nostro terrorismo (anche se forse i nostri terroristi erano meno giovani). In secondo luogo, la considerazione più importante è che anche una correlazione spuria può fornire indicazioni operative: mentre tutti chiedono alla comunità islamica e agli imam di dissociarsi con l’autorità della dottrina, chissà che non abbia più effetto la dissociazione, con la violenza delle parole di un qualche “rapper” di una “banlieu”.

 

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