Criminalità
Le parole sono importanti. Il 416 bis e la singolare antimafia “popular-chic”
Uh che noia: l’inchiesta che ha terremotato Roma torna ad occupare le cronache ed ecco che tornano a farsi sentire anche coloro i quali sin dall’inizio – e, soprattutto, a priori – hanno messo in dubbio la mafiosità della organizzazione criminale contro la quale stanno procedendo i magistrati romani, la quale tutto sarebbe tranne che mafiosa. Questo, appunto, almeno secondo certi commentatori che si potrebbero definire popular-chic per una certa attitudine spiccia, popolaresca e muscolare a trattare le faccende della vita che sembra aspirare a contrapporsi al mondo radical-chic; e però soltanto nell’attitudine, dimenticando anch’essi la sostanza.
Però, bene, è giusto che si discuta, ed è lecito che – nonostante le tonnellate di carta utilizzata per raccontare cosa è accaduto in questi ultimi anni nei quartieri della città e a Ostia soprattutto – si dubiti del fatto che certi personaggi dallo spiccato accento romanesco possano essere definiti mafiosi. Naturalmente, saranno i giudici a stabilirlo una volta per tutte, ma, appunto, discuterne è giusto. Poi, certo, sarebbe meglio se le ragioni sulla base delle quali si costruiscono i ragionamenti non fossero quelle piuttosto pittoresche che – come è accaduto soprattutto subito dopo la prima tornata di arresti di qualche mese fa – si nutrono di un improbabile confronto tra la presunta mafia Capitale e la Cosa Nostra siciliana, e che per giunta rischiano ad ogni istante di scivolare nel grottesco di certi film di genere, per concludere immancabilmente che no, a Roma la mafia non esiste, e non esiste a priori. Insomma, si dovrebbe per lo meno leggerlo questo famoso articolo 416 bis del codice penale, unico elemento di realtà ed anche unico elemento attorno al quale ruota il lavoro della magistratura.
Dunque, leggiamolo subito e, anzi, leggiamo subito il terzo comma, che è quello che definisce cosa si debba intendere per mafiosità: «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri». Chiaro, no?
Come è evidente, non è richiesto l’uso di lupara né un particolare dress code che preveda l’uso della coppola, né, infine, sono richiesti la conoscenza e l’uso del dialetto siciliano affinché un gruppo criminale possa essere qualificato nel suo agire come organizzazione di tipo mafioso. È richiesta invece l’esistenza di alcuni elementi, ben più concreti e verificabili di quanto abbiano raccontato certe suggestive analisi che si sono potute leggere in queste settimane. E tali elementi, in estrema sintesi sono: l’esistenza di una organizzazione, il potere intimidatorio del vincolo associativo del quale gli associati sanno di potersi avvalere nella propria attività criminale, la condizione di assoggettamento e omertà che da ciò deriva. Ecco, soltanto sulla base della esistenza di questi semplici elementi, nei tribunali si giudica della mafiosità di un gruppo criminale. Mafia, insomma, nel codice penale non è la Cosa Nostra siciliana ma un modello generico di comportamento criminale associato. Coppole e giuramenti di sangue, dunque, sono soltanto folklore.
Se è così, ecco che, allora, certe analisi sulla inchiesta detta Mafia Capitale appaiano d’improvviso quanto meno strampalate; e ci si riferisce a coloro i quali, appunto, andavano cercando lupare, coppole o almeno una eco di dialetto siciliano, mancando i quali sarebbe mancata anche la mafiosità della organizzazione con le ovvie conseguenze: altro che mafia, quello che starebbe scoprendo la procura di Roma sarebbe soltanto il solito guazzabuglio di tangenti, compromissioni, interessi politici, economici, criminali; niente di nuovo sotto il sole, insomma, ma appunto soltanto le solite vecchie cose; figurarsi se a Roma c’è una mafia; proprio a Roma, poi. Macché.
Va anche detto, però, che ad avventurarsi in analisi di questo genere sono stati per lo più coloro i quali, per carica o per mestiere, sono abituati ai divanetti del Transatlantico, e a una elasticità della sostanza ch’è propria della politica, la quale è spesso allergica a certe forme che invece nelle aule dei tribunali sono sostanza, e questo a garanzia della libertà di ciascuno, perché l’arbitrio del giudice e una eventuale sua deriva sbirresca siano con ciò limitate. Ma se anche questa scusante possa essere concessa, ciò non significa che si possa per questo abusarne, giacché, per dire, nel commentare i fatti basterebbe anche soltanto riflettere su un’unica circostanza: il lavoro della procura – e, con esso, anche la tesi sulla presunta mafiosità della organizzazione criminale – ha già retto il vaglio di un giudice; si vedano ad esempio le motivazioni del tribunale del Riesame. E vale ripeterlo: giudice, e non pubblico ministero. E questo, appunto, già dovrebbe dare una qualche indicazione sulla prudenza che andrebbe usata quando si scrive di certe questioni e se ne discute in televisione.
E invece no; e di recente si è dovuto leggere anche che i singoli indagati andrebbero perseguiti per reati specifici e che applicare il 416 bis renderebbe addirittura più difficile individuare le singole responsabilità. Come se il 416 bis non fosse un articolo del codice anch’esso, proprio come gli altri articoli del codice; come se non prevedesse una specifica ed autonoma condotta criminale alla quale corrisponde una pena specifica. E allora si corrobora il sospetto che troppo spesso si scriva senza aver letto ciò di cui si scrive.
Ma poi sorge anche un dubbio che apre la porta a scenari ancor più inquietanti, poiché si è giunti a una singolare e pericolosa traslazione: i legittimi dubbi che possono esistere sul concorso esterno in associazione mafiosa vengono adesso scaricati anche sulla fattispecie prevista dal 416 bis relativa alla associazione di stampo mafioso. Il che fa temere che la prossima frontiera di un certo garantismo popular-chic sarà di rimettere in discussione la stessa esistenza della mafia, con buona pace di Falcone e Borsellino e con un implicito ritorno a una situazione pre-maxi processo di Palermo e quindi precedente a quella storica sentenza, momento apicale della guerra tra lo Stato e Cosa Nostra.
In ogni caso, se anche la scenario non fosse così grave, basterebbe soltanto ricordarsi cosa è accaduto in Lombardia e nel nord Italia in questi ultimi decenni nei quali – come hanno raccontato le inchieste Crimine e Infinito – la ‘ndrangheta si è radicata in silenzio e ha potuto operare nascosta, per emergere per merito del lavoro delle procure di Milano e Reggio Calabria, ma nello sconcerto dei più ché – lo sanno tutti! – a Milano la mafia non esiste; figurarsi se a Milano c’è una mafia; proprio a Milano, poi. Macché.
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