Costume

Il sonno della società genera mostri

9 Giugno 2023

La gente ha bisogno di un mostro in cui credere. Un nemico vero e orribile. Un demone in contrasto col quale definire la propria identità. Altrimenti siamo soltanto noi contro noi stessi.
(Chuck Palahniuk)

Passato il clamore della prima cronaca e dell’opinionismo d’assalto dei talk show pomeridiani, vale forse la pena di fermarsi e tornare a parlare della violenza che sempre più spesso si consuma fra persone legate da un vincolo affettivo. Ci piace infatti pensare che il compagno e assassino di Giulia Tramontano sia un mostro. Ci rassicura l’idea che in giro ci sia qualcuno di “malato” che reagisce a un problema (da lui stesso creato) con violenza cieca. È l’anomalia del sistema, da imputare a un disturbo di personalità, nella storia famigliare. Purtroppo però non è così e la questione parte da lontano, da un contesto in cui il “no” non è previsto, in cui il limite non è previsto e dove il “se vuoi puoi” è passato dall’essere lo slogan del self made man all’affermazione di potere (che sia maschile o femminile) a prescindere dall’altro e finalizzato a soddisfare sempre, il prima possibile, senza nessuna conseguenza per sè, senza nessuna presa in carico, i propri bisogni.

Bisogni e non desideri, istinti e non sentimenti. Non esiste un’educazione sentimentale che avvicini le persone all’idea di governo delle emozioni (cosa ben diversa dal non provarle o rimuoverle), alla gestione dei sentimenti negativi, del conflitto, della perdita.

Da una parte lo schema sociale in cui siamo inseriti non fa che ripercorrere le tracce del secolo scorso, proponendo una visione delle relazioni – siano esse amorose, sessuali, affettive, professionali – improntata sulla norma: il rapporto è questo, queste sono le regole, tutto il resto è devianza o fallimento. Dall’altra la società del consumo ci spinge a consumare anche i rapporti, riducendoli a un appagamento di un bisogno o di una mancanza e, quando va bene, a un do ut des. Ti amo e quindi mi devi amare, anche se il sentimento si è spento. Ti ho cresciuto e quindi devi fare quello che ti dico, anche se significa sposare l’uomo (o la donna) che la tua famiglia ha scelto per te. Ti ho dato un lavoro, quindi se ti invito insistentemente a cena dovresti essere gentile e accettare. Ovviamente questo non può che portare a un cortocircuito. Se libertà significa fare ciò che si vuole e il successo sociale è rappresentato dall’affermazione del proprio appagamento – sempre più spesso anche in chiave pubblica e mediatica grazie ai social network – l’ipotesi che ogni fatto della vita sia un delicato equilibrio fra soddisfazione di una propria esigenza e il rispetto degli altri non può essere considerata.

Voglio, quindi posso e se non posso in modo civile esigo.

Un esercizio di potere che parte dall’incapacità di rinuncia, di gestione del conflitto e dall’accettazione di una cattiva immagine sociale di sè. “Basta che gli altri non lo vedano e problema risolto“. Quindi uccido per rimuovere un problema, qualcosa che può essere un impedimento certo, ma soprattutto macchiare l’immagine che io ho di me stesso e che gli altri hanno di me. Un’immagine distorta dal contesto sociale sicuramente, ma soprattutto da una diseducazione alla gestione delle emozioni. L’omicidio per gelosia, l’omicidio per vendetta, l’omicidio per vergogna o, ancora peggio, come soluzione di un problema. Parli e ti metto a tacere. Aver giustificato per decenni l’omicidio per sentimento, quello del “Lo ha tradito, se l’è cercata”, “L’ha lasciata ed è giusto che la famiglia lo abbia punito”, inevitabilmente ha costruito un clima di tolleranza per la violenza. Oggi si piange l’ennesima vittima, ma additare il mostro non servirà a cambiare le cose, perché partiamo sempre dalle stesse premesse, anche dopo la tragedia.

Lo stesso giorno in cui è avvenuto l’omicidio di Giulia Tramontano, di cui tutti noi oggi conosciamo il nome, la storia famigliare, il percorso di vita, un’altra donna è stata uccisa. Pierpaola Romano, 58 anni, uccisa da un collega. La ragione? Aver messo un confine alla loro relazione. Un no di troppo, evidentemente, che ha portato l’uomo a “chiudere” la storia con la violenza. Si è parlato poco di Pierpaola e le stesse testate che raccontavano con – giusto – sconcerto dell’omicidio di Giulia come qualcosa di incomprensibile e “mostruoso”, hanno sottolineato come assassino e vittima avessero probabilmente un legame più che professionale, la cui interruzione sarebbe stata causa del gesto. Non una giustificazione, ma un archiviare la questione come comprensibile. L’amore dovuto, considerato come possesso, una volta che viene negato può provocare una reazione.

L’omicidio di una donna, compagna e quasi madre del figlio dell’assassino è incomprensibile, l’omicidio di una amante che ha deciso di terminare la relazione richiede – socialmente – minor sforzo di elaborazione.

I tanti omicidi di persone che vivono nel mondo del sesso a pagamento (uomini o donne che siano) valgono ancora meno. In fondo giocavano col fuoco, quello del desiderio, del bisogno, della relazione, pur effimera. Nel do ut des sociale erano votati a dare qualcosa che, evidentemente, non hanno dato. Non hanno corrisposto a un’immagine di “prodotto”. La stessa immagine di prodotto della moglie (o del marito) infedele che rende comprensibile lo scarto. Non sei più quello che avevi promesso (o che per te era stato previsto e immaginato) di essere. La figlia uccisa perché non si comporta in modo remissivo seguendo le tradizioni di famiglia per un matrimonio forzato è qualcosa che ci è culturalmente estraneo (anche se forse dimentichiamo che fino a pochi decenni fa in Italia esisteva il matrimonio riparatore e che tante donne hanno subito la sorte ingiusta del matrimonio forzato anche a casa nostra), mentre la punizione per il tradimento risuona in lontananza come qualcosa di ancora giustificabile. In fondo la persona ferita ha diritto di vendicare le proprie aspettative tradite.

La nostra società non è in grado di gestire la frustrazione, un sentimento spiacevole che va addomesticato fin dall’infanzia, imparando a rispettare il confine fra ciò che è nelle nostre disponibilità e ciò che non lo è, primi fra tutti i sentimenti e le vite degli altri.

Bisognerebbe fermarsi e cercare di capire in quale momento abbiamo abdicato, come società e in larga parte come singoli, alla responsabilità della scelta, alla presa in carico delle conseguenze delle nostre azioni, alla consapevolezza che per ogni nostro gesto esiste una contropartita nell’altro e che dobbiamo tenerne conto. Quando ci siamo disabituati a gestire la frustrazione che deriva da un “no” o, come nel caso dell’omicidio Tramontano, da un “affronta le conseguenze di una tua decisione”. Perché forse i mostri esistono, ma di sicuro non esistono scelte gratuite e non esiste la possibilità di poter sempre risolvere tutto, senza mai ad affrontare la frustrazione, il peso e le difficoltà delle nostre scelte: non è possibile mettere sempre un “punto e a capo”.

Ph.credits

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