Criminalità
Gli antagonisti e la mentalità da War Games
Frequento i centri sociali milanesi da quando sono un ragazzino: Torchiera, Conchetta, Leoncavallo, Cantiere, Zam, Fornace e gli ex Bulk, Malamanera, Pergola, Acqua Potabile, ecc. Lì ho passato innumerevoli nottate e conosciuto decine di ragazzi. Solo per dire che il mondo dell’antagonismo l’ho visto da dentro, senza mai diventarne parte attiva. E questo perché considero le battaglie politiche un mezzo per raggiungere determinati obiettivi, e non determinati obiettivi un pretesto per condurre guerriglie urbane.
Non si tratta solo di gruppi isolati, dei sedicenti black block, di frange estreme; ma di una mentalità diffusa in una parte importante del mondo antagonista ed estremamente radicata in alcuni centri sociali. Le battaglie politiche sono solo un pretesto: il vero obiettivo è andare allo scontro con la polizia, spaccare vetrine, in alcuni casi mettere a ferro e fuoco interi quartieri. La mentalità che pervade una parte significativa di questo mondo la definirei da War Games: giocare a fare la guerra.
Certo, il comportamento della polizia riveste sempre un ruolo fondamentale, così come decisive sono le direttive che riceve dall’alto: quanto avvenuto a Genova nel 2001 ne è un esempio chiarissimo. Ma lasciando perdere gli esempi più clamorosi, nella maggior parte dei “normali” scontri tra manifestanti e forze dell’ordine a far esplodere la miccia sono determinati esponenti del mondo antagonista.
L’atto di spaccare la vetrina di una banca o un Mc Donald’s, di arrivare allo scontro con la polizia in tenuta anti-sommossa non è la conseguenza di una battaglia politica esasperata, è esattamente quanto si vuole ottenere. Il gioco che si vuole giocare. La dimostrazione la dà anche il fatto che, a Milano, per molti anni c’è stata contiguità tra il mondo delle curve dello stadio (basti pensare alla disciolta Fossa dei Leoni) e il mondo più estremo dell’antagonismo.
Ho conosciuto tanti di loro, in qualche occasione li ho visti anche in azione. Andare in Val di Susa a combattere contro la Tav aveva per loro lo stesso identico valore che andare a pestarsi con i tifosi dell’Hellas Verona. La differenza dovrebbe essere sostanziale: nel primo caso si lotta per una battaglia che si ritiene giusta, nel secondo caso lo scontro è esplicitamente solo un gioco, non potendoci essere nel mondo ultras nessuna vera ragione per arrivare allo scontro fisico.
La politica delle curve, fatta di soli slogan, di urla, di scontri, è la dimostrazione di come l’adesione a determinati valori possa essere esclusivamente strumentale, abbia il solo scopo di andare “in guerra”, contro altre tifoserie o contro le forze dell’ordine (che, sia chiaro, in alcuni casi soffrono della stessa identica “sindrome”, come ha dimostrato il libro Acab di Carlo Bonini). E il fatto che, almeno fino a poco tempo fa, una parte importante del mondo antagonista coincidesse con il mondo delle curve, spiega perché gli scontri siano in larga parte inevitabili, finché a determinati personaggi sarà consentito di fare politica.
In mezzo a una larghissima maggioranza di persone che vanno a manifestare contro il jobs act o contro la Tav perché credono in ciò per cui manifestano, ci sono gruppi organizzati che manifestano contro il jobs act senza avere in mente nulla più che alcuni slogan elementari e manifestano contro la Tav senza nemmeno sapere quale siano pro e contro di quella particolare infrastruttura. L’unico obiettivo è andare in guerra. Il gioco della guerra.
Un secondo ordine di problemi sta nel fatto che questi personaggi sono spesso e volentieri tra gli esponenti più attivi del mondo antagonista, se non addirittura gli organizzatori di determinate manifestazioni. Nel momento in cui si scende in piazza sono troppe le persone che già sanno che si arriverà allo scontro, che sono lì solo per quello. E non è un caso se su di loro il discorso “gli scontri hanno il solo merito di far sì che il giorno dopo si parli degli scontri e non delle nostre battaglie” non fa presa.
Gli scontri non derivano da una situazione esasperata, da una manifestazione in cui qualcosa è andato per il verso sbagliato; gli scontri ci sono perché troppe persone sono lì appositamente per quello, ma nessuno ha il coraggio di emarginarli per davvero (qualcosa in passato si è provato a fare – ricordo in particolare una riunione in Pergola in cui si cercò di affrontare il problema – ma non ne è mai seguito nulla). Non sono estremisti, non sono radicali, non sono persone che lottano per una causa: sono antagonisti non importa a cosa. Lo scopo è essere antagonisti, non raggiungere l’obiettivo. E infatti la loro strategia è la più funzionale possibile a far sì che lo scopo non venga mai raggiunto.
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