Criminalità

Funerale show di Roma, in Sicilia non potrebbe accadere

21 Agosto 2015

Diciamolo chiaro: in Sicilia, il funerale show oltre che tremendamente kitsch del boss Casamonica, non sarebbe mai stato permesso. La mia, s’intenda, non è una difesa d’ufficio della mia terra contro gli stereotipi duri a morire, ma è una annotazione da cronista. La rivoluzione culturale intrapresa dal popolo siciliano ha coinvolto in primis la Chiesa, che ha voluto (anche se lentamente) prendere le distanze dal suo passato fatto di aperta contiguità con Cosa nostra.

Dal discorso di papa Giovanni Paolo II alla Valle dei Templi datato 9 maggio 1993, quando il capo universale della Chiesa cattolica tuonò contro i mafiosi invocandone la conversione, i rapporti (ovviamente non ufficiali) tra una parte del clero e l’organizzazione criminale si sono incrinati. C’è voluta poi l’uccisione di don Pino Puglisi a creparne certi sordidi oltre che solidi legami. Sia ben chiaro, si tratta di una presa di distanza recente. Il passato racconta di certe affinità tra preti e mafiosi per nulla nascoste.

I funerali di Lucky Luciano, celebrati più di 50 anni fa, sembrano rappresentare il canovaccio seguito dai sodali di Casamonica nel dare l’ultimo saluto al boss romano. Vecchie pellicole in bianco e nero immortalano una carrozza barocca farsi largo tra ali di folla. Allo stesso modo la Chiesa nissena celebrò con solennità i funerali di un mammasantissima di primo piano della vecchia onorata società, Calogero Vizzini, boss di Villalba. La Curia non si oppose alla stampa delle cartoline in suo onore e che contenevano un elogio funebre dal taglio esplicitamente agiografico, con tanto di immagine del morto ritratto con la stessa autorevolezza e possanza di un qualsiasi padre o eroe della patria. Con quel ventre imprigionato in due strette bretelle mostrato fieramente a favore del fotografo e gli occhiali scuri da gangster americano. D’altronde don Calò poteva vantare in famiglia una nutrita schiera di religiosi.

L’elenco dei preti che negli anni hanno ammiccato al potere violento della mafia è lungo: da don Agostino Coppola, il “padre spirituale” dei corleonesi, il sacerdote che unì in matrimonio il capo dei capi Totò Riina a Ninetta Bagarella, a padre Mario Frittitta, il frate carmelitano del convento della Kalsa a Palermo, confessore del boss Pietro Aglieri. E i torbidi rapporti tra clero e Cosa nostra menzionano persino degli ambigui atteggiamenti di un vescovo, Salvatore Cassisa, fino al 1997 alla guida della Curia di Monreale. Altro che odor di santità, a cui dovrebbe ambire un pio e morigerato uomo di fede; Cassisa ha odorato sempre di mafia. Secondo un rapporto della polizia, ad usare il cellulare del suo segretario personale fu addirittura Leoluca Bagarella in persona.

Anche la liturgia mafiosa si è mischiata a quella cattolica. Nel rito della “punciuta”, il giuramento dell’uomo d’onore, si promette fedeltà eterna all’organizzazione tenendo ben stretto un santino che negli istanti successivi verrà fatto bruciare. Le elargizioni alle parrocchie dei “picciotti” sono una consuetudine; le feste di paese e quelle di quartiere vengono sovvenzionate dalle famiglie, e il popolo di fedeli ricambia con gli inchini delle statue dinanzi alle finestre della casa del boss. E i collegi cattolici negli anni sono stati riempiti a dismisura dai rampolli delle dinastie più in vista di Cosa nostra. Pietro Aglieri studiò al seminario di Monreale, e nel suo covo da latitante si fece costruire un altare. I fratelli Brusca studiarono dai salesiani. Provenzano poi conservava i suoi pizzini tra le pagine della Bibbia. Michele Greco, il “papa” per l’appunto, prima della sentenza al Maxiprocesso si appellò alla corte scomodando Dio e invocando la “pace nelle famiglie”.

Persino Rosa Balistreri, fine conoscitrice dei meccanismi che regolavano la società siciliana, scrisse quel magnifico e straordinario canto, “La mafia e li parrina”, che denunciava apertamente e coraggiosamente le complicità tra chi portava la croce al petto e chi la lupara a tracolla.

Ma come detto le cose sono cambiate. L’indicazione degli ultimi pontefici non ammette ambiguità; chi è dentro a Cosa nostra è fuori dalla Chiesa. Vescovi coraggiosi hanno vietato che i propri sacerdoti celebrassero in pompa magna le esequie di uomini che si sono macchiati dei più atroci reati.

Monsignor Michele Pennisi, attualmente arcivescovo di Monreale, ai tempi in cui reggeva la diocesi di Piazza Armerina, rifiutò i funerali in chiesa al capo della cosca di Gela Daniele Emmanuello. Per quella decisione gli fu assegnata la scorta. Ad altri “principi” di Cosa nostra, anche in diocesi differenti, è stato riservato il medesimo trattamento. Lo Stato ha fatto da sponda. La linea adottata dai questori siciliani è univoca: stop ai funerali pubblici, concesso solo un ultimo e privatissimo saluto nelle cappelle dei cimiteri. Pure al “papa” Michele Greco, morto nel 2008, sono state proibite le esequie in chiesa.

Fa specie sentire che sulla vicenda romana nessuno sapesse nulla. In Sicilia ad ogni funerale di mafioso la presenza dei poliziotti è così massiccia che supera persino quella dei parenti del defunto. Il sistema di prevenzione e di repressione del crimine adottato nell’Isola prevede che la vita di un uomo d’onore sia sottoposta ad un attento e puntiglioso controllo, pure quando il suo corpo giace inanimato dentro una cassa di legno. E’ pur vero, a prescindere delle resistenze di Stato e Chiesa, che il codice comportamentale di un appartenente a Cosa nostra difficilmente ammetterebbe la spettacolarizzazione di un funerale.

Lo show tamarramente kitsch offerto dai congiunti e dagli amici di Casamonica disgusterebbe i vecchi padrini, molto più discreti dei guappi di Mafiacapitale. I boss siciliani, legatissimi ad una rigida simbologia, si sarebbero limitati a pochi gesti oramai entrati nel mito mafioso, segni inequivocabili del passaggio di potere. Di sicuro bandirebbero le gigantografie, gli elicotteri che sputano dal cielo fiori, le magliette con impresso il faccione del morto o la colonna sonora del Padrino suonata da una banda di paese.

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