Criminalità
Della spaventosa corruzione degli italiani
Vedere i telegiornali in Italia è uno spasso. La cronaca nera o giudiziaria occupa metà del notiziario. E’ minuziosa e tignosa, non trascura nulla dei fatti di sangue che in qualche modo celebra ed esalta o delle ripetute inchieste sulla corruzione pubblica che squassano il Paese, ma è piuttosto istituzionale, molto riguardosa delle Forze dell’ordine, che fanno quello che possono, va da sé, e che saltano come grilli di qua e di là tentando di acciuffare qualche “mariuolo” (Craxi dixit), ma che sanno anche autocelebrarsi. I video che “passano” nei tg sono spesso girati dalle stesse Forze dell’ordine che si autorappresentano con immagini abilmente montate e riprese sia nel corso delle inchieste, degli “origliamenti”, degli arresti (di prammatica i tutori dell’ordine che abbassano la testa del reo per farlo entrare nell’autovettura) e nella scena “classica” delle auto della FF.OO che escono sgommanti con le sirene ululanti dalle caserme – molto coreografiche e suggerenti destrezza e ubiquità ai casi come il Don Ciccio Ingravallo di Gadda. Questi filmati sono ovviamente “soggettivi” ossia girati da un punto di vista di parte. Tutti sanno che il “punto di vista” in narratologia è fondamentale. Se io piazzo una telecamera in testa a Madame Bovary o Fabrizio del Dongo e tutte le loro azioni fossero “viste” e raccontate da loro, fossero cioè i personaggi stessi gli scrittori del loro romanzo, è chiaro che avremmo un altro romanzo rispetto a quello di Flaubert o di Stendhal.
Il punto di vista delle Forze dell’Ordine è spesso autocelebrativo (tutti i servizi recano il logo dell’Arma di competenza) o serve addirittura a qualche ufficiale per fare carriera, non essendoci in Italia un metodo certo, meritocratico, per ascendere gli alti gradi. I giornalisti si dovrebbero rifiutare di prenderli in carico, perché girare filmati d’inchiesta dovrebbe essere compito loro, dei giornalisti non dei poliziotti. Anche perché i video e gli origliamenti dovrebbero trovare posto nella loro sede naturale: non la televisione ma i processi. I quali spesso non arrivano e quando arrivano mandano tutti assolti, oppure condannano e poi assolvono o viceversa, o si perdono nei meandri dei Palazzacci per sempre.
E’ fin troppo evidente che il Paese è immerso nel crimine e nel malaffare, e non occorre attendere le statistiche spesso curate da chi dovrebbe reprimere i reati, per capire che il fenomeno è da molto tempo fuori controllo. Vi potranno dire che i reati sono diminuiti del 2 o del 3 %, o che se comparati con altri Paesi testimoniano che tutto il mondo è Paese (ma noi testardamente restiamo convinti che il nostro Paese è tutto un mondo) resta il fatto che essere colpiti personalmente da una percentuale anche in decrescita, da uno 0,001, fa ugualmente molto male.
Che viviamo in un Paese più che corrotto e moralmente allo sbando penso che nessuno lo metta in dubbio. Il controllo del territorio è inesistente, ognuno in Italia fa “tuono a sé” diceva Leopardi, ossia fa quel che gli pare, e i poliziotti sono impiegati in massa a prendere botte dagli hooligan o dai No-tutto, e quelli che restano amano stare negli uffici a spingere delle carte lasciando alle giovani reclute i servizi di ordine pubblico. A me capitava spesso di ricevere due panciuti poliziotti alla volta con una carta in mano, in cerca di informazioni che si potevano assumere con una semplice e-mail.
Ma riguardo la corruzione, che è diffusa in tutti gli interstizi della realtà sociale, politica, amministrativa, sia nelle élite come nella masse, è sapere se essa è derivante dalla debolezza delle istituzioni (in senso lato, politiche, amministrative, giudiziarie) oppure dalla speciale conformazione civica dei cittadini italiani, dalla loro “base morale”. Sapere insomma se è una questione di assetto istituzionale o antropologica, comportamentale. Io da sempre propendo per la seconda: il convento può avere regole improntate alla santità e spesso ce l’ha (anzi più i costumi sono corrotti più i canti sono lirici e celestiali, più le regole sono rigide più le pratiche sono molli, diceva Tocqueville) ma se i frati sono tutti corrotti dal Priore al Frate Guardiano c’è poco da sperare.
La corruzione degli italiani ha diverse motivazioni. Innanzi tutto è storica. Cioè incistata nella nostra vita sociale da secoli. Solo per fare un esempio “innocente”: l’Altare della Patria, il Vittoriano a Roma, è in marmo botticino perché il ministro che sovrintendeva all’epoca, Zanardelli, era di Brescia, città del suo collegio elettorale e vicina alle cave di Botticino. La debolezza dello Stato formatosi tardi e condizionato da quello Stato dentro lo Stato che è la Chiesa è una prima ragione. La Chiesa che da sempre governa le coscienze dei Peninsulari, si è morbosamente concentrata, dai tempi della Controriforma, sulla morale sessuale (verso la quale è stata in fondo tollerante nella sostanza, sapendo ciò che nascondeva nei propri conventi, e perciò suggeriva: “si non caste tamen caute”, ma ne restava ossessionata nella parola, nel parossismo retorico, trascurando tutto il resto). Da ciò ne è dipesa un’enfasi ossessiva verso il quinto comandamento e un acquiescente e gigantesco “scialla” verso il settimo: non rubare. In secondo luogo la policromia e il bizantinismo del nostro Giure ha contribuito non poco a confondere il gioco. Il Peninsulare sa da tempo che “ruba poco e finirai in galera, ruba tanto e farai carriera” e non teme la giustizia perché sa che essa è tanto reboante e magniloquente quanto inefficace. Anche perché è stata apparecchiata da politici interessati a riti lunghi e bizantini, e alla decorrenza dei termini o ai supremi auspici della Cassazione, che cassa spesso e volentieri. Insomma siamo la culla del diritto, ma del diritto che è rimasto in culla.
Sul tema dell’inefficacia della giustizia, del sistema giudiziario italiano e della sostanziale complicità “antropologica” dei connazionali cui va benone questo stato di cose, potrei citare i migliori osservatori del carattere nazionale italiano da Madame de Staël a Sismondi a Leopardi a Barzini ad Aldo Schiavone (che in Italiani senza Italia, Torino, Einaudi, 1998, a differenza di D’Azeglio, avvertiva che gli italiani ci sono sempre stati, ciò che è mancato è l’Italia, ossia lo Stato). E’ un tema secolare insomma.
Di Sismondi giova ricordare tuttavia la penetrante osservazione: “L’Italia è probabilmente il solo paese del mondo, in cui l’infamia legale, invece di essere incompatibile col potere, sia una condizione richiesta per esercitare una certa autorità. Un impudente furto, uno spaventoso omicidio, potrebbero eseguirsi in mezzo alla pubblica piazza, che la folla, anzi che moversi ad arrestare il colpevole, si aprirebbe per lasciargli adito alla fuga, e si richiuderebbe per trattenere i birri che lo inseguissero. Il testimonio interrogato intorno ad un delitto commesso sotto i suoi occhi si reputa offeso, perché si tenti di farlo parlare come un delatore. Così viva è la compassione che eccita il prevenuto, così universale la diffidenza della giustizia del giudice, che ben di rado i tribunali ardiscono sprezzare questa generale opinione e pronunciare una sentenza capitale. Ma ciò non torna a vantaggio dei prevenuti; questi languiscono talvolta nelle prigioni molti anni, o sono rilegati in paesi di cattivo aere, dove la natura fa lentamente e dolorosamente ciò che il giudice non ebbe il coraggio di fare; ma l’esempio della pena che segue il delitto, è perduto affatto pel pubblico.” (Sismonde de Sismondi – capitolo CXXVII del XVI volume Storia delle repubbliche italiane ).
Che fare? Qui si affollano al capezzale di Pinocchio due tipi di dottori. Uno che dice alla Hegel: bisogna intervenire sulle istituzioni: è il convento etico che fa i frati etici. Un altro alla Kant dice: niente da fare occorre far leva sulle coscienze. Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me. Sono i frati singolarmente etici che fanno il convento etico. Io mi sono stancato. E dico che occorre intervenire su entrambi i fronti: sul convento e sui frati. Ma c’è un circolo vizioso. Chi dovrebbe farlo? Altri italiani? Vaste programme, direbbe il Generale De Gaulle.
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