America
Dallas chiama Salvini: la “globalizzazione” della paura
Dovevo accendere la televisione in un appartamento di Washington Square a New York per capire come è cambiata l’Italia; e per sentire quanto siamo cambiati tutti noi, dall’ultima volta che sono stato qui, in questo stesso posto, nel 1987. La differenza non è che allora ero uno studente e ora sono un accademico: avevo equazioni in testa allora e ho equazioni in testa oggi. Le equazioni di oggi sono più complicate e la testa è stata abbandonata dai capelli, e l’appartamento che allora sembrava nuovo di zecca mostra anche lui i segni dell’età, con rughe alle pareti e il parquet molto più pallido e ruvido. Ma l’appartamento ed io ci riconosciamo ancora e non siamo cambiati più di tanto. Quello che è cambiato è la distanza che sentivo allora tra la gente di qui e la mia gente, e l’orgoglio di quella differenza. E ora la differenza e l’orgoglio non ci sono più. Guardando una trasmissione su un caso giudiziario, oggi devo ammettere che quello che capita a Dallas può capitare a Milano.
Il caso giudiziario di Dallas. Una poliziotta fuori servizio rientra a casa, trova un uomo di colore seduto di fronte alla televisione guardando la partita e mangiando un gelato. Estrae la pistola e lo fredda con due colpi. Violazione di domicilio e pericolo imminente. Ma c’è un particolare: la poliziotta ha sbagliato appartamento, e l’appartamento era legittimamente abitato dall’uomo di colore. Ovviamente io non sono cambiato dall’87, e la prima cosa che mi viene in mente oggi, come mi sarebbe venuta in mente allora, è: ma non ti sembra strano che uno ti venga in casa con una coppa di gelato e si metta a vedere la televisione? Prima di sparare, non ti viene da chiederti almeno se il gelato che si sta mangiando è tuo o se l’è portato da casa?
Un tempo avrei riso di rabbia. Il conduttore dice che questo caso è particolare perché l’accusa è riuscita a umanizzare la vittima che nei processi per omicidio è impossibilitata a partecipare al processo, per ovvi motivi. Alla televisione del dolore americana si dice anche questo. Ma oggi un suo vicino ha testimoniato che la vittima cantava il gospel, amava la vita. E si commuove. E pare commossa anche la giudice. I commentatori non perdonano alla giudice la commozione. Nota di colore: Sono di colore il testimone, la giudice e alcuni dei commentatori, è bianca la poliziotta accusata di omicidio. Ma non è un caso che ha a che fare con il colore della pelle. Bianchi e neri hanno lo stesso modo di pensare.
E’ lo stesso modo di pensare. Fanno sentire la chiamata originale della poliziotta alla centrale che, fortemente sotto shock (da noi oggi si direbbe, “sotto forte turbamento”), ripete: “Pensavo fosse il mio appartamento, pensavo fosse il mio appartamento…” E poi aggiunge: “Perderò il lavoro”. E poi: “Amico, resta con me”. Perderò il lavoro? Ma il conduttore non chiede perché uno che ha appena sparato a un uomo si preoccupa del lavoro? In effetti dopo un po’ lo chiede, e tutti, bianchi e neri danno la stessa risposta: stava ripetendo quello che le veniva in mente. Qui, a nessuno pare strano che se hai ammazzato uno ti possano venire in mente pensieri del tipo: “ora perdo il lavoro”, oppure: “qui mi tocca a saltare le ferie”.
Sento salire lo stesso sarcasmo di un tempo. E cresce quando cominciano i dettagli tecnici. Un esperto in collegamento da Dallas ci fornisce due regole fondamentali che vengono impartite ai poliziotti che possono essere utili a capire. La prima: se tiri fuori la pistola, spara. Roba tipo: “mani alto” o “alt chi va là”, che ci hanno insegnato al militare, fanno parte di un’altra storia e di un’altra geografia. La seconda regola è quella dei 24 piedi: se uno ti si avvicina a più di 24 piedi gli spari perché se lo fai avvicinare di più magari non hai tempo di reagire.
Sfortunatamente questo stava seduto sul divano a una distanza di 21 piedi, e si dibatte animatamente se lo sfortunato sia stato freddato mentre cercava di alzarsi dal divano o se fosse avanzato addirittura fino a 15 piedi dalla poliziotta, magari per dirgli: “hai sbagliato appartamento”, perché il secondo colpo gli ha trapassato il petto da sopra in giù. Era seduto, o forse, dopo il primo colpo ha provato ad abbassarsi per schivare il secondo, invece di drizzare la schiena e gonfiare il petto, come ovviamente farebbe ognuno di noi, da Custer in poi.
Ma sono tutti concordi. La poliziotta ha fatto la cosa giusta nell’appartamento sbagliato. Si discute solo di come abbia fatto a sbagliare l’appartamento. L’accusa fa notare che non solo aveva sbagliato appartamento, ma anche piano: ha scorso diciassette appartamenti senza accorgersi che i numeri cominciavano tutti per 4. Poi mostra un tappetino di quelli che stanno fuori della porta, un mezzo cerchio rosso fuoco e così kitch che non si può vedere. Come mai non l’ha visto? Oppure (questo l’aggiungo io) gli ha sparato proprio per quel tappetino? E poi, altro punto, non ha sentito il forte tanfo di marjuana che c’era nell’appartamento? Quindi la poliziotta si sarebbe dovuta chiedere: non è casa mia, perché io non ho quell’orribile tappetino e non mi faccio le canne. Invece il gelato non lo considera nessuno. Il fatto che un delinquente ti venga in casa e si mangi una coppa del nonno non pare strano a nessuno.
Ma l’uomo in collegamento da Dallas risponde alla mia obiezione sul gelato: senza menzionarlo e lasciando gelato me. Nella convinzione che l’appartamento fosse suo, dice, la poliziotta aveva il pieno diritto e il dovere di sparare. Se uno viola la tua casa, tu hai il diritto di sparare, per proteggere la tua sicurezza. Vi ricorda qualcuno? Io sono in piedi davanti alla televisione che continuo a chiedere: ma anche uno che mangia il gelato? E l’uomo da Dallas sembra che guardi diritto me e mi dà la risposta. In Montana abbiamo avuto un caso simile di uno freddato mentre faceva la doccia. Mi viene in mente una battuta da caserma: “chissà che minchia di arma da guerra aveva questo tizio sotto la doccia!”. Chiedo scusa della battuta ma anch’io sono “sotto forte turbamento” e scrivo anch’io tutto quello che mi viene in mente.
E mentre sento tutto questo, trovo la differenza stridente tra quando sono stato qui allora e oggi. Allora avrei coronato il mio sarcasmo, che come vedete da questo pezzo è rimasto immutato, con la frase che dicevo allora: “Fuck you! I’m European!”. Sì, dicevo: “I am European” e questo mi ha fatto capire la distanza siderale tra allora e oggi. E il bisogno di scriverla qui. E avvertire che se quella affermazione appare oggettivamente così lontana, non mi rassegnerò mai, per questa vita, a cambiarla con un: “tutto il mondo è paese”. Non sarò mai disposto ad accettare la globalizzazione della paura.
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