Criminalità
Catamorra, come le mafie hanno colonizzato la Catalogna
BARCELLONA – Molti esponenti del crimine organizzato made in Italy, soprattutto camorristi, si sono stabiliti a Barcellona e dintorni. Non tanto per la movida notturna o il glamour da spiaggia urbana hippy-bohémien della Barceloneta. Ad attrarre mafiosi e camorristi in Catalogna, e in Spagna in generale, sono altri fattori. In primo luogo, la prossimità geografica all’Italia e ai paradisi fiscali di Andorra e Gibilterra, raggiungibili in auto o via mare, senza passare per aeroporti troppo sorvegliati. E poi le rotte del narcotraffico passano per di qui: da secoli ponte tra l’Europa, l’Africa e le Americhe, la Spagna è oggi la principale porta d’accesso per tutta la droga proveniente da Nord Africa e Sud America. Come osserva anche la CIA, «i narcotrafficanti nordafricani, latinoamericani, galleghi e di altri paesi europei approfittano della lunga linea costiera spagnola per sbarcare grossi carichi di cocaina e hashish da distribuire sul mercato europeo». Ancora, per un camorrista o un mafioso è relativamente facile imparare il castigliano, così simile all’italiano. Le orde di turisti e studenti italiani aiutano a passare inosservati. E soprattutto, la normativa spagnola sul crimine organizzato è più debole di quella nostrana. Lo conferma agli Stati Generali Laura Zúñiga Rodríguez, professoressa di diritto penale presso l’Università di Salamanca: «Nel codice penale spagnolo non esiste il reato di organizzazione mafiosa. Nel 2010 è stato introdotto quello di organizzazione criminale, ma è praticamente una novità».
Anche Roberto Saviano ha più volte denunciato la presenza delle mafie in Spagna. «La Costa del Sol i camorristi la chiamano Costa Nostra», ha dichiarato otto anni fa in un’intervista, sottolineando anche come la Spagna sia senza dubbio il paese europeo più legato alla camorra dopo l’Italia. Ma cosa fa Madrid per contrastare la colonizzazione mafiosa italiana? Ben poco secondo Lucio, avvocato italiano attivo in Catalogna che preferisce non apparire sugli Stati Generali col suo vero nome. «Se agli spagnoli parli di mafia quelli pensano subito al Padrino e sorridono, la vedono come un fenomeno remoto, quasi pittoresco. – racconta – Non si rendono conto. Qui il giro della droga è gigantesco, e fino al 2008 camorristi e mafiosi hanno potuto tranquillamente riciclare capitali investendo nel mattone. Il risultato è che la costa catalana, e quella andalusa, sono ormai infestate, oltre che dai boss in fuga dall’Italia, pure da affiliati di vari clan».
La mafia italiana non sta solo a Barcellona. Tanti camorristi optano anche per cittadine più tranquille del litorale catalano. Come Sitges, gioiellino della Costa Dorada, dove nel 2006 fu arrestato Carmine Rispoli, del clan Di Lauro. Va forte pure l’Andalusia. Nel 2009 è stato arrestato a Marbella, nella provincia di Malaga, Raffaele Amato (“O spagnolo”), capoclan degli Scissionisti di Secondigliano. Al 2013 invece risale la maxi-operazione contro il clan Polverino, che portò all’arresto di oltre cento affiliati tra Italia e Spagna.
Il boss Giuseppe Polverino fermato nel 2012 nei pressi di Cadice, gestiva numerose attività commerciali in tutta la Spagna e possedeva diverse case, anche in una località balneare della costa catalana. Polverino era molto ben integrato in Spagna, dove aveva anche una compagna, che gli aveva pure dato un figlio. L’arresto della signora per complicità con il boss creò non poco scalpore sui media spagnoli. Poco prima di finire in manette, infatti, era apparsa sulla tv nazionale ballando la samba durante una puntata della versione spagnola di Uomini e Donne (il quotidiano spagnolo ABC criticò duramente la trasmissione per aver mandato in onda “Le amanti dei camorristi a ritmo di samba”). Ad aprile, nella Costa del Sol, è stato arrestato Lucio Morrone, nella lista dei 100 latitanti più pericolosi d’Italia, leader del gruppo “Teste matte” del centro storico di Napoli.
Le operazioni contro i boss, spesso frutto della collaborazione tra forze dell’ordine italiane e spagnole, non sembrano bastare a sradicare il problema. Anzi, la presenza della camorra in Catalogna è tale che Joan Queralt, giornalista specializzato in questi temi, ne ha scritto un libro dal titolo eloquente: “La gomorra catalana” (tradotto in italiano per i tipi di Eir). «L’aroma mafioso di varie pizzerie del centro storico di Barcellona è noto – spiega Queralt agli Stati Generali –. Secondo vari esperti il settore alimentare è quello dove la mafia ha investito di più negli ultimi tempi. Nonostante la crisi continuano a moltiplicarsi gli esercizi di gastronomia italiana, che già prima erano tanti. Guarda caso il numero cresce soprattutto nelle zone con maggior presenza dei clan: Madrid e dintorni, Andalusia e Catalogna».
Insomma, il dilagare della mafia in Spagna è un segreto di Pulcinella. Lo ribadiscono agli Stati Generali due mossos d’esquadra (polizia catalana) in pattuglia nella zona barcellonese del Born: «Lo sanno anche i sassi che tanti ristoranti, negozi e pizzerie italiane qui appartengono alla mafia». Del resto, spiega Queralt, «i clan si concentrano in zone dove abbondano i punti d’appoggio logistico per il traffico di stupefacenti, come appunto le Baleari, la Costa del Sol, Madrid e la Catalogna. E hanno pure le loro reti di rifornimento, fondamentalmente attraverso intermediari marocchini e colombiani, come ha rivelato l’operazione contro il clan Polverino nel 2013».
Nelle carceri spagnole gli italiani sono il secondo gruppo straniero dopo i rumeni, annota la Guardia Civil. Secondo il rapporto “Gli investimenti delle mafie”, realizzato nel 2013 dal centro di ricerca Transcrime dell’Università Cattolica di Milano per il ministero dell’Interno italiano, la Spagna sarebbe l’unico paese al mondo (a parte l’Italia stessa) a ritrovarsi con tutte e quattro le mafie nostrane. «Negli ultimi dieci, quindici anni la mafia è diventata una presenza rilevante in Spagna – dice Zúñiga Rodríguez –. E credo che abbia approfittato non poco del fatto che le forze dell’ordine, così come le politiche anti-crimine, fossero fortemente concentrate sulla lotta al terrorismo dell’ETA e, più di recente, su quella al terrorismo di stampo islamista. E intanto la Costa del Sol, la Catalogna e altri territori sono diventati rifugi molto accoglienti non soltanto per i capi ma anche per i loro clan. E soprattutto per i loro soldi».
In effetti è facile immaginare quante opportunità di riciclaggio offrisse il settore immobiliare spagnolo prima della crisi del 2008. «Il boom del ladrillo per i mafiosi è stata un’enorme opportunità di riciclare denaro sulle nostre coste – continua Zúñiga Rodríguez –. Ed è proprio questo il problema. Ormai è da anni che la mafia non si limita alle attività illegali. Quindi è diventato estremamente difficile individuare i confini tra il crimine organizzato, la corruzione e il riciclaggio. A volte poi è tutto quanto insieme». Queralt conferma: «La quantità e il tipo di atti notarili realizzati in Spagna dagli italiani danno un’idea dell’entità di denaro riciclato: si tratta del 45% delle compravendite immobiliari e oltre il 60% delle compravendita di valori realizzati da stranieri». Il punto, sottolinea Queralt, è che «la Spagna è la porta d’ingresso per enormi quantità di droga, ogni giorno. La Catalogna, in particolare, è un punto di passaggio obbligato per collegare il sud del paese alla frontiera francese, e poi all’Italia».
Ma la Spagna non è solo un hub strategico per la distribuzione continentale. Detiene pure il poco invidiabile titolo di paese leader nell’UE per consumo di cannabis e cocaina. I livelli di cannabis riscontrati negli scarichi di Barcellona sono secondi unicamente a quelli rilevati ad Amsterdam. E in effetti facendo un giro per le strade della città (o di centri di provincia più piccoli come Sabadell), si sente spesso nell’aria il caratteristico odore di porros (canne). E nelle conversazioni tra giovani di tutte le età è facile sentir parlare di canne, strisce e pastiglie. «Io inizio a fumare [cannabis] appena rientro dal lavoro, verso le quattro del pomeriggio – racconta agli Stati Generali Victor, 34 anni, muratore –. Aiuta a rilassarmi un po’ e a non pensare troppo ai problemi. Quando ero più giovane mi facevo anche di roba più pesante: cocaina, ectasy, LSD… le ho provate praticamente tutte. Da quando ho compiuto 30 anni però ho smesso con quelle schifezze. Alla lunga ti spappolano il cervello».
La presenza mafiosa in Spagna è ad alta intensità di capitali ma non di violenza. Di sangue se ne versa davvero poco. «La violenza non fa bene agli affari, specialmente fuori dall’Italia – spiega Queralt –. In generale qui i clan preferiscono evitare gli spargimenti di sangue, per non allarmare l’opinione pubblica e tantomeno le autorità. C’è stato qualche regolamento di conti, anche in Catalogna, come quello di Lloret de Mar tre anni fa, ma sono eccezioni. La maggior parte dei conflitti che sorgono in Spagna si risolvono in Italia».
Ecco perché gli spagnoli non sono consapevoli dell’alto tasso di penetrazione mafiosa. «Senza episodi di violenza la criminalità diventa invisibile – continua Queralt –. E si sa, i politici si muovono quasi sempre sull’onda degli stati d’animo e dei timori dell’opinione pubblica. Però è chiaro che il problema c’è, e non è di poco conto. Stiamo parlando di un’industria criminale multinazionale e potente, con le sue politiche di espansione, crescita e alleanza con altri sistemi criminali. Politiche che, a loro volta, riguardano la finanza, il mercato, il lavoro, la legalità, la convivenza civile… Elementi essenziali della democrazia, insomma».
La gomorrizzazione del paese è in corso. «Secondo la polizia la camorra ha fatto un vero salto di qualità – conclude Queralt –. I clan sono cresciuti, e si rileva una progressiva infiltrazione economica ma anche sociale. Esistono persino le prove che vari camorristi residenti qui stiano cercando di penetrare le amministrazioni pubbliche locali e le forze dell’ordine. Inoltre alcuni camorristi vivono in Spagna da così tanto che ormai esiste una seconda generazione (di nazionalità spagnola e totalmente integrata nel paese) i cui metodi operativi sono e saranno completamente diversi da quelli dei genitori. Per quante operazioni di polizia o arresti si facciano, questa seconda generazione non lascerà la Spagna. Quindi le autorità dovranno cercare nuove modalità per contrastare il fenomeno».
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