Criminalità
Caso Balsamo, l’assurdo pareggio dei conti di un istrione criminale
Cosimo Balsamo è l’ennesima persona che ha pensato di risolvere i propri problemi uccidendo qualcuno e poi suicidandosi. Ma perché ha fatto un ragionamento simile?
Balsamo era un pregiudicato bresciano di 62 sposato e con due figlie. Era stato condannato fino all’ultimo grado di giudizio per essere uno dei capi della cosiddetta “banda dei tir”, specializzata nel rapinare i camionisti che trasportavano metalli. Per questo motivo gli erano stati confiscati quasi tutti i beni, tra cui numerose proprietà immobiliari.
Secondo una prima ricostruzione, Balsamo pensava che alcuni suoi complici non solo lo avessero tradito, ma fossero riusciti persino a farla franca, al contrario di quanto accaduto all’omicida stesso. Per questo il 4 aprile avrebbe aperto il fuoco su tre imprenditori: prima ha raggiunto e ucciso Elio Pellizzari (che a quanto sembra non c’entrava nulla) e ferito il suo socio Giampiero Alberti, che probabilmente era il suo reale obiettivo, poi è andato ad ammazzare James Nolli, altro suo presunto socio, e infine si è suicidato con la stessa pistola.
«Credo che non debba stupire – spiega il dottor Giorgio Droetto, medico legale e criminologo -se una persona come il Balsamo, a fronte di quello che ha ritenuto un comportamento “infame” tenuto dai suoi presunti ex sodali, nel momento della disperazione decide di vendicarsi nel solo modo che conosce e ritiene adeguato».
Come mai?
«La valutazione che ha fatto il Balsamo sta nelle regole non scritte ma ferreamente condivise in quel mondo criminale e secondo la scala di valori, o meglio disvalori, di quel microcosmo».
Che profilo criminale aveva Cosimo Balsamo?
«Da quanto si apprende dai mezzi di informazione, si trattava di un soggetto con una carriera criminale alle spalle di tutto rispetto (della quale probabilmente conosciamo soltanto una parte, ovvero quella emersa nel corso delle varie indagini di polizia e nei provvedimenti della magistratura), e che ha conosciuto la restrizione della vita carceraria, dove ha, peraltro, avuto la possibilità di affinare cultura e metodi criminali. Ma il suo profilo non si limita a questo aspetto».
Cioè?
«È interessante analizzare un episodio precedente che aveva visto il Balsamo protagonista: il 9 gennaio scorso aveva protestato contro la confisca dei propri beni salendo sulla tettoia del Tribunale di Brescia e minacciando di suicidarsi. Le forze dell’ordine l’avevano convinto a desistere».
Perché, secondo lei?
«Non credo che il suo gesto potesse classificarsi come una richiesta di aiuto, come spesso può accadere nei soggetti che minacciano il suicidio, ma che in realtà poi non lo attuano o perlomeno non in modo efficace.
Probabilmente invece quell’episodio può essere interpretato come un gesto dettato da un carattere istrionico, che voleva richiamare su di sé l’attenzione dei media e che, contestualmente, forse, voleva mandare un messaggio ai suoi presunti ex complici, dai quali forse attendeva un riscontro che non ci sarebbe mai stato».
Quindi i complici non si interessano al fatto che è rimasto sul lastrico e lui decide di ucciderli.
«Esatto. Vuole assaporare la vendetta e pareggiare i conti, secondo una logica distorta ma coerente alle leggi non scritte del suo mondo, con coloro che lui riteneva l’avessero tradito e abbandonato».
E perché poi si toglie la vita?
«Probabilmente perché sapeva che lo avrebbero atteso lunghi anni di carcere – che lui ben conosceva e dove ragionevolmente non si può pensare accettasse di tornare e da cui difficilmente – vista l’età – sarebbe uscito vivo».
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