Criminalità
Caivano, emblema del popolo delle periferie su cui si tace
“Lo squallore di una periferia metropolitana – spazio del disastro urbanistico in cui vengono cacciati i poveri, gli emarginati, i relitti della società consumistica – costringe la vita al brutto, che è volgarità e violenza. Dal brutto ci si vuol separare, non lo si ama: è comprensibile l’aggressività di chi vorrebbe distruggerlo o il senso di frustrazione di chi soggiace alla sua violenza.” (S.Zecchi, L’artista armato)
Da quando Caivano è entrata nel dibattito pubblico, tutti ne parlano. É salita agli onori delle cronache, entrata a far parte dei racconti dei media. Un tempo ignari dell’esistenza stessa del paese dell’hinterland partenopeo, i media si sono legittimamente buttati a capofitto nel raccontare in lungo e in largo tutto ciò che accade, in cronaca diretta, nel Comune più chiacchierato d’Italia.
Elicotteri in volo, blitz polizieschi, passerelle politiche. Dieci giorni prima il nulla, quanto durerà quest’attenzione? Servirà il decreto Caivano a risolvere una parte rilevante dei problemi che affliggono una terra martoriata? O servirà solo per sbandierare il vessillo di una politica che ha colto, sebbene tardivamente, l’urgenza di un’emergenza spesso taciuta.
I cittadini di Caivano sanno benissimo che, abbandonati, isolati ed emarginati lo erano prima e ugualmente lo saranno tra pochi giorni, orfani di uno Stato che non raggiunge le propaggini più distanti della periferia, laddove invece germogliano la criminalità organizzata che supplisce alla sua assenza sociale, culturale, economica.
Era il 1980 quando la terra di Irpinia distrusse interi paesi nel Meridione, uccidendo migliaia di persone. Cinque anni dopo una nuova legge provvedeva a dare casa a coloro che ne erano rimasti senza, una legge che ha rappresentato la prova di una delle più grandi speculazioni del nostro Paese passando per il sisma più costoso di Napoli. In questi costi ci fu anche la costruzione del Parco Verde, in cui finirono circa 6000 sfollati che venivano tutti dalle zone più difficili di Napoli, come la Pignasecca, Forcella, quartiere Sanità, creando di fatto un vero e proprio ghetto. Quartieri che sembrano nati col peccato originale, dato dall’ammasso di tante povertà, e non dall’ osmosi di diverse realtà. Dopo un riassetto urbano, il nuovo quartiere, che avrebbe poi preso il nome di Parco Verde, non era completo quando arrivarono i primi “coloni”; fu poi dotato di strade, si fece arrivare acqua ai piani più alti dei palazzi, dove prima non arrivava. Il rapporto tra caivanesi ed abitanti del quartiere é sempre stato logoro, pregiudizi da una parte e dall’altra hanno impedito sul nascere un possibile svolta comunitaria a Caivano. Per decenni i cittadini caivanesi hanno usato questo quartiere, Parco Verde, come tappeto sotto cui nascondere le proprie malefatte. D’altro canto, i parcoverdiani si chiusero nell’autosuffjcienza della loro cittadina “perfetta”: i loro figli non avevano bisogno di uscire dal quartiere per andare a scuola e giocare, avevano già tutto lì. L’utopia del progetto, si è trasformata, come spesso accade in distopia. Col passare del tempo, “una cortina di ferro” è calata tra il Parco e il resto di Caivano, il processo di ghettizzazione si é acuito, il baratro ha causato danni ingenti, tra cui l’aver facilitato la formazione di un sistema camorristico autoctono nel quartiere, talmente efficiente da trasformarlo in una delle principali piazze di spaccio d’Europa.
Di quella cittadina perfetta del 1985 c’è rimasto ben poco. Ci sono le strade ma piene di buche, i campetti sono distrutti, l’erba gramigna ha preso possesso della villetta. Il parco è degradato, ci sono soltanto dei poveri volontari del quartiere che si offrono autonomamente di pulire i palazzi e le strade chiedendo pochi euro al mese per un servizio che dovrebbe essere garantito dal Comune.
A proposito di Comune, Caivano non è riuscita a portare a naturale scadenza il mandato di un sindaco. Per un motivo o per un altro le giunte comunali si ribellano al loro stesso sindaco causando l’arrivo del commissariamento prefettizio.
Abitare, lavorare, vivere in un quartiere popolare non è affatto semplice, se a questo aggiungiamo anche difficoltà come piazza di spaccio, inquinamento – Caivano é stata negli anni ed è tutt’oggi, la capitale della rinomata e famosissima “Terra dei Fuochi” – e una situazione politica “lenta” e “debole” ritroviamo il mix perfetto di degrado, immobilismo culturale e sociale. Quando un ragazzo, magari con licenza media, è in bilico nello scegliere la propria strada e il proprio futuro, è probabile che l’industria della droga faccia di lui un suo nuovo operaio. Al Parco Verde non esiste la normalità poiché è normale che questa sia tinta da fatti di cronaca come blitz, stese di sparatorie o giovani ritrovati morti per overdose nei terreni che circondano l’isolato.
Nonostante tutto, Parco Verde ha i suoi presidi di legalità, come la Chiesa San Paolo Apostolo alla cui guida vi è Don Maurizio Patriciello, il prete anticamorra, che da trent’anni fa della sua vocazione un mandato per tendere la mano a chi da solo non riesce a rialzarsi. La Compagnia dei Carabinieri capitanata dal Capitano Antonio Maria Cavallo, che ogni giorno, insieme ai suoi uomini, si impegna per offrire a Caivano un futuro diverso, una storia diversa, una narrazione diversa. C’è l’istituto ” Francesco Morano” la cui dirigente, Eugenia Carfora si è impegnata sin dal suo arrivo nel 2007 a trasformare quel fazzoletto di terra pieno di verde incolto in un luogo in cui la cultura e la bellezza fossero un faro di speranza.
Parco Verde è sicuramente l’emblema di ciò che capita quando lo Stato latita consegnando alla criminalità quella che dovrebbe essere la sua forza rigeneratrice: giovani che hanno il desiderio di cambiare la propria vita, i rapporti di forza e vivere in un mondo che dia loro fiducia e garanzie di riuscita. Uso un condizionale perché Parco Verde è un pò il simbolo di tante periferie e quartieri popolari dove il background economico e socio-culturale rappresentato dalle famiglie e la mancanza di servizi essenziali, rende difficile svegliarsi ogni mattina e respirare degrado, immobilismo, omertà. Il bene e il male in queste realtà si sono intrecciati, l’obiettivo per le famiglie è mettere il pane in tavola, un pane spesso amaro perché si vive alla giornata, e spesso la cultura e una buona educazione non viene considerata un bene remunerativo, né una discriminante tra quello che si è e quello che si potrebbe essere. Quello che un ragazzo impara presto nei quartieri di periferia é che nascere in un altro luogo o in qualche altra famiglia sarebbe stato diverso.
Per la Santanchè il problema si risolve facendo vedere ai ragazzi che c’è un mondo differente, la differenza che essi scorgono è che la fortuna ha giocato a loro svantaggio.
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