Criminalità

Benvenuti a Caracas, una città in ginocchio

12 Marzo 2019

A Pilar, 47 anni e un figlio di 12 con problemi comportamentali, importa poco a chi dare le colpe dei blackout che, in quattro giorni, hanno messo in ginocchio Caracas. Da tre quarti d’ora occupa un anello della lunga coda di un magazzino che odora di catrame, sventrato da un incendio. “Pollo? Patate?”. Non si sa che cosa si distribuisce. Nessuno, di coloro che hanno la tessera del lunedì si è mosso, nessuno è uscito con una busta piena di qualcosa con cui nutrirsi nella sfida quotidiana di mettere assieme pranzo e cena, in un Paese dove manca l’indispensabile.
Barrio de las Minitas, zona sud, dove le strade sono dritte come serpenti e iniziano a inerpicarsi sul drappello di montagne che invade Caracas.

Dopo novantasette ore di seguito, senza corrente, la gente ha rimesso la testa fuori casa con le mani sporche di cera di candele e il morale sotto ai piedi. L’assenza di celle frigorifere funzionanti ha distrutte quintali di preziosissimo cibo. I caraquenos hanno stipato con cura e tanta difficoltà carni e verdure per poi vederle marcire. L’umidità tocca il 92 per cento e sulla pelle i 28 gradi diventano 36, in attesa che alla sera si alzi un po’ di brezza dalle montagne. Per dimenticare l’inferno della rivoluzione bolivariana.
A Caracas le paure nascono da tante ragioni diverse e hanno cure differenti. Quando c’era l’apagon, il colossale blackout che ha spazzato via la corrente in nove quartieri su dieci, la gente aspettava la notte terrorizzata, come se da un momento all’altro la realtà diventasse come il film “the Purge”, dove ognuno aveva licenza di delinquere e uccidere dal tramonto all’alba. Chiusa nei loro appartamenti in palazzoni falansteri di otto piani, con gli ascensori fermi, e le deboli luci dei generatori che punteggiavano il panorama, la classe media di Caracas che scivola verso la povertà, ha sperato che tutto fosse un incubo, dimenticabile con le prime luci del mattino
Ora che la luce è tornata, e non si sa per quanto, i quartieri della fascia sud della capitale del Venezuela, la parte più abitata e povera, quella che approfittando dell’oscurità in quattro giorni, ha assaltato tutto ciò che poteva essere assaltato, dai bancomat, alle poste ai negozi di alimentari ai benzinai, ora aspetta la notte per nascondersi e leccarsi le ferite. Dieci morti soltanto in quattro giorni durante gli assalti notturni ai negozi, una cinquantina di feriti, decine di arresti. Ma che cosa te ne fai di una tv lcd se poi la corrente è a singhiozzo. Semplice te la vendi al mercato nero per cento dollari e mangi carne di pollo per una settimana.

Intanto, in coda, dopo un’ora e mezza escono sette persone con una busta piena di pollame. Qualcuno applaude, molti imprecano, sono tutti sorrisi amari di gente che non merita un trattamento simile. Un mendicare l’elemosina di un governo che afferma in modo demenziale che sono stati gli americani con un attacco elettromagnetico a bruciare le centrali termoelettriche e che il paese produce sufficiente cibo per tutti, benché l’embargo. Menzogne di Stato come nella Russia di Cernienko.
Nelle urbanizzazioni create nei primi anni del XXI secolo da Hugo Chavez, che ha buttato giù le favelas di fango e mattoni sbriciolati, le mense pubbliche, quelle sociali che accolgono tutto il quartiere, non servono un pasto decente da novembre. E Maduro rifiuta le derrate alimentari che il Brasile la Colombia hanno inviato. Decine di camion hanno bivaccato per una settimana, durante il concerto di Richard Branson per portare cibo al Venezuela, poi di notte sono arrivati gli sciacalli che hanno rubato quasi tutto. Quel poche che è arrivato a Caracas è finito saccheggiato dai colectivos chavistas, gli squadroni che sulle moto da enduro guidano come folli per la la città per fare quel lavoro sporco che la polizia nazionale si rifiuta di fare. Saccheggi, omicidi, rapine, regolamenti di conti. Alle luce del sole o nel buio dei blackout.

Il nord della città, nei loro quartieri patrizi c’è lo zoccolo duro di Juan Guaidó, l’oppositore del regime che sta tentando di riaprire le porte alla democrazia, parlando come Ghandi, senza invitare alla violenza, ma convincendo uno a uno i maduristas. Perché Caracas è una città di ormai antichi successi e bellezze, ora spaccata in due come la Berlino del Muro. I poveri da una parte, a Sud e i ricchi a Nord, mescolati con gli uomini del regime che hanno rastrellato il 90 per cento delle ricchezze.
Caracas e il Venezuela sono una terra di contraddizioni che fai fatica a capire anche se sei preparato al peggio. Fino al 1998 cera una discreta democrazia, poi nel 1999 l’introduzione della Costituzione Bolivariana (approvata con un referendum) è apparso nel vocabolario dei venezuelani il principio della “revocabilità” di tutti i mandati elettivi a ogni livello dell’amministrazione, compresa la carica presidenziale, che può essere revocata attraverso referendum popolare, alla metà del periodo di esercizio. Questo, come potete comprendere in un Paese dove le elezioni sono guidate, manipolate, falsificate da mostruosi brogli, è una bomba atomica per una democrazia: se non fosse morto Hugo Chavez sarebbe stato eletto all’infinito e tuttora sarebbe seduto sulla poltrona di presidente nel Palacio Miraflores E se i brogli non funzionano, Chavez ha fatto in tempo nel 2009, sempre tramite un referendum costituzionale, ad approvare leggi che consentono che le candidature per tutte le cariche elettive possano essere ripresentate nelle successive elezioni, senza limitazioni di numero e tempo. Insomma, i venezuelani sono condannati a tenersi a vita gli stessi dannati politici. Chiusa la parentesi politica, doverosa per far capire che aria tira, bisogna capire come uscire da questa situazione. Il Venezuela non può permettersi cinquant’anni di embargo come a Cuba. E non può diventare la nuova Cuba con la violenza al quadrato.
Le dure sanzioni economiche, gli embarghi, la catastrofica politica economica di Hugo Chavez riproposta da Maduro hanno dato la coltellata al cuore del Paese che è seduto su uno dei giacimenti di petrolio più giganteschi al mondo. Caracas potrebbe avere il triplo delle ricchezze di Dubai e otto volte il Pil della California. E, invece, davanti ai distributori, ogni giorno ci sono infinite scazzottate per accaparrarsi i pochi litri di gasolina che un settore petrolifero cianotico (che gira al 25 per cento delle sue potenzialità) produce.

Il petrolio che è sempre stato la moneta liquida di scambio per avere tutto ciò che manca e che il Venezuela non produce. L’embargo ha strozzato l’estrazione del petrolio, due selle quattro raffinerie principali sono bruciate. Mancano pezzi di ricambio componenti per fare una minima assistenza tecnica e, col tempo, tutti si rompe e si ferma. È la lenta, inesorabile tenaglia dell’embargo che, alla fine, colpisce chi ha meno o niente. E alimenta il mercato nero, squadroni di anime nerissime, gentaglia senza scrupoli che ti chiede 25 dollari americani per cinque chili di cubetti di ghiaccio.

(fine prima parte)

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