Criminalità
A Milano si muore di noia – Per Albert Dreni
È probabile che a Milano non stia tirando nessuna aria particolare, che non stia soffiando alcuna insolita brezza ma che tuttavia, io credo, un cambiamento stia comunque avvenendo: una di quelle pericolose e inesorabili trasformazioni indotte dal muoversi lento di un magma distratto, di un magma indolente come quella parte di società milanese che, oggi, sembra sottovalutare il problema dei giovani latinos (come abbiamo voluto chiamarli) un po’ come fece la borghesia parigina, negli anni Novanta, al cospetto dei giovani musulmani di certe oscene banlieue.
Questa, però, è anche la storia di una morte minore. La morte di un giovane albanese, di nome Albert, di cui ci siamo scordati di raccontare la storia. Ho provato a capire quale potesse essere il motivo della rimozione di Albert Dreni dalle cronache milanesi. La prima spiegazione è che questo giovane albanese, per molti, non è ancora morto. Eppure la speranza di vivere lui non l’ha più. Il suo cuore si è fermato troppo a lungo, e benché alcuni bravissimi medici glielo abbiano di fatto ricostruito, è il suo cervello, quello che davvero ha ceduto. Oggi Albert è soltanto un cuore – quasi perfetto – collegato a delle macchine che lo tengono in vita, e non resta che aspettare che i suoi organi cedano e muoia.
La seconda spiegazione è che negli stessi giorni, in un’altra città, il razzismo ha fatto la sua ennesima, sfortunatissima vittima, e per quella vittima tutti quanti abbiamo giustamente cercato giustizia. Albert è stato invece assassinato da due ragazzi di origine sudamericana, da degli immigrati, anzi da due giovani figli di immigrati che nel nostro paese non si sono mai davvero integrati. Un pasticcio, insomma, una storia meno eclatante e che dunque fa meno notizia.
Il terzo motivo, a questo connesso, è che la morte di Albert ha stuzzicato, per un momento soltanto, la solita penna poco informata. Una penna che ha subito buttato il discorso su una fantomatica MS-13 capace di terrorizzare addirittura Milano; lontano, cioè, dalla propria terra d’origine, dall’unica terra che davvero controlla. Ma l’MS-13 non esiste in Italia, non ancora, almeno, o non più di quanto esistano i Guerrieri della Notte o gli Alieni. A Milano l’unica emergenza riguarda queste nuove generazioni di immigrati, seconde o terze generazioni cui dobbiamo a tutti i costi riuscire a parlare.
E un modo, forse, è quello di raccontare la storia di Albert. Credo che questo diciottenne albanese sia rimasto escluso dai nostri discorsi perché in fondo era un bravo ragazzo. E perché, soprattutto, non aveva in Italia dei genitori che potessero urlare per lui una richiesta sofferta di visibilità e di giustizia. Quando ho deciso di raccontare la storia di questo giovane immigrato, ho colto tutto l’imbarazzo degli educatori che lavorano dove lui era stato accolto alcuni anni fa, e che oggi lo piangono. Uomini e donne che silenziosamente, ogni giorno, strappano ragazzi come Dreni all’inferno, e li restituiscono alla società sotto forma di bravi studenti, o di professionisti capaci. Come Illyrian, uno dei primi che ho conosciuto, che da anni si è ormai guadagnato la fama di elettricista milanese provetto. Come O., che a dodici anni – orfano di genitori trucidati davanti ai suoi occhi – ha fatto chilometri a piedi da solo, e una volta arrivato a Milano, e cresciuto nella medesima comunità, è diventato un bravissimo cuoco. L’imbarazzo di questi educatori, dicevo, mi trattiene oggi dal farmela raccontare più a fondo, la storia di questo ragazzo. Non mi trattiene, però, dal volerne a tutti i costi parlare, perché chi come noi con le parole lavora di fronte a certe tragedie non conosce vergogna.
Albert – quel maledetto sabato sera – tornava col tram 15 verso la sua ex comunità al Gratosoglio, dunque, insieme a un altro ospite della struttura proveniente a sua volta da chissà quale nazione. Questi ragazzi, quando si trovano accolti, perdono forse un po’ di prudenza, e Albert ha pensato di poter davvero riportare alla calma quel gruppo di ragazzi che litigavano, e che invece gli hanno regalato cinque pugnalate nel cuore. I testimoni hanno raccontato di averlo visto sbiancare, forse incredulo oltreché dissanguato; forse incapace di poter infine accettare che l’improvvisa speranza che aveva provato stava per rivelarsi soltanto una truffa.
Albert era solo un ragazzo: un bravo ragazzo. Che oggi piangono altri ragazzi africani, altri ragazzi slavi, altri ragazzi centro o sudamericani, proprio come i suoi incoscienti assassini. E la morte di Albert sembra forse volerci invitare a non distogliere gli occhi, o almeno a non guardare al triste epilogo della sua storia, al triste epilogo di questa vita spezzata come soltanto a un pretesto, a un modo per aggiungere un po’ di colore alla nostra mappa delle criminalità milanesi. Cui certo non serve la galleria fotografica, la collezione di tatuaggi di un MS-13 che non può certo rappresentare un problema a Milano. Il rischio che invece davvero corriamo è quello di ritrovarci fra pochissimo tempo con un esercito di ragazzi che non abbiamo mai saputo guardare, che non abbiamo saputo pensare, o all’occorrenza persino duramente punire. Un esercito di stranieri in patria, davvero e di fatto, e dunque privi di alcuna speranza.
Queste le parole con cui oggi i lavoratori della Comunità salutano Albert: “Il desiderio rimasto nei suoi occhi è il rientro in Albania: a giorni avrebbe ritirato il suo primo permesso di soggiorno da maggiorenne, e sarebbe partito. L’incontro a cui per anni aveva lavorato era quello con una famiglia alla quale poteva finalmente dimostrare il proprio valore ed il fortissimo legame affettivo. Sarà per sempre parte di questa casa, nel profondo del cuore di ognuno di noi”.
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